Corriere della Sera, 8 febbraio 2018
La memoria aumentata
Poter stimolare la memoria? Diventare tutti dei novelli Pico della Mirandola? Moltissimi lo vorrebbero, e anche la scienza (in un certo senso) asseconda questo sogno. In vari modi. Se le pastiglie, per ora, non possono nulla c’è chi percorre altre linee di ricerca, come quelle attraversate da opportune correnti elettriche. In fondo che cosa c’è di strano? I messaggi fra le cellule nervose del nostro cervello non sono forse sostanzialmente di natura elettrica? L’ultimo esperimento, a partire da questo assunto, è stato condotto negli Stati Uniti da neurologi della University of Pennsylvania e della Thomas Jefferson University. I ricercatori hanno sottoposto a stimolazione cerebrale profonda (dbs = deep brain stimulation ) 25 persone affette da epilessia, riscontrando un miglioramento del 15% nella loro capacità di ricordare, misurata con uno specifico test. L’esperimento è stato condotto su epilettici non perché abbiano particolari problemi di memoria ma perché dovevano già, comunque, subire l’impianto di elettrodi in quanto candidati a un intervento chirurgico destinato alla cura della loro malattia. Approfittando (ovviamente con debito consenso) della loro disponibilità gli studiosi hanno utilizzato l’impianto come un pacemaker, che inviasse impulsi al cervello mentre questo era al lavoro per immagazzinare informazioni e rimanesse invece inerte in altre fasi.
Entusiasmo quindi? Sì e no. I commenti di diversi esperti hanno sottolineato il valore teorico del risultato, che offre prospettive molto interessanti in chiave metodologica. Gli stessi autori della ricerca hanno però richiamato alla prudenza. Il primo motivo è che la tecnica utilizzata richiede l’inserimento nel cervello di diversi elettrodi, quindi si tratta di un intervento invasivo. E non mancano diverse altre ragioni che invitano alla cautela, legate sia ai potenziali rischi della metodica in sé, sia a considerazioni di natura etica. Ultima, e scientificamente solida, considerazione da fare sta poi nella valutazione proprio del risultato ottenuto, perché un miglioramento del 15 per cento su un campione sperimentale di persone così esiguo non può essere considerato ancora significativo e non permette di trarre conclusioni di carattere applicativo. Concorda in particolare con questa ultima considerazione Marco Trabucchi, presidente della Società Italiana di Psicogeriatria: «L’ipotesi di un approccio così traumatico, anche solo in chiave sperimentale, nel trattamento, per esempio, della demenza è da ritenersi assolutamente fuori discussione, almeno finché i risultati saranno di questi tenore. Un eccessivo e superficiale ottimismo in questo senso desta in me, anzi, una profonda preoccupazione». Meno pessimista ma comunque concretamente realista anche Alberto Priori, direttore del Centro Aldo Ramelli per le Neurotecnologie e Terapie Sperimentali dell’Università degli Studi di Milano, che sottolinea: «La ricerca è sicuramente interessante, anche se la metodica non è nuova. La stimolazione cerebrale profonda si usa infatti da tempo per esempio per l’epilessia resistente ai farmaci e questo effetto sulla memoria registrato dai neurologi americani è, per così dire, un “effetto collaterale” della tecnica utilizzata. Del resto sono già stati eseguiti test su pazienti, per esempio con malattia di Parkinson, in cui è stato riscontato un miglioramento transitorio della memoria in circostanze simili».
«Si tratta comunque di un risultato stimolante» conclude Priori, «che si inserisce nei filoni di ricerca in campo neurologico fondati su questo genere di tecnologie, sulle quali nel nostro Paese si possono vantare da molti anni risultati di assoluta avanguardia».