La Stampa, 8 febbraio 2018
Dante Alighieri, poeta e musicista
Era musicista Dante Alighieri? Un suo commentatore, l’umanista Francesco Filelfo (1398-1481), lo descrive addirittura come gran virtuoso di canto, organo e cithara, uso a far musica in solitudine fin nella vecchiezza, ma la testimonianza è troppo tarda e iperbolica per non destar sospetti. Sarà prudente attenersi a quella più sobria di Boccaccio (Trattatello in laude di Dante, 1351-55): «Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e a ciascuno che a que’ tempi era ottimo cantatore o sonatore fu amico ed ebbe sua usanza; e assai cose, da questo diletto tirato, compose, le quali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali facea rivestire».
Nel Convivio Dante descrive l’ascolto musicale in termini tanto calorosi da tradire una partecipazione esperienziale e non meramente speculativa. «La Musica trae a sé gli spiriti umani, che sono vapori del cuore, sicché quasi cessano da ogni operazione: si è l’anima intera, quando l’ode, e la virtù di tutti quasi corre a lo spirito sensibile che riceve lo suono», come a dire che tutte le facoltà psichiche si concentrano nel senso dell’udito in una sorta di paralisi estatica. Di musica agita si continua a parlare in De vulgari eloquentia, dove l’autore teorizza la superiore nobiltà della canzone (cantio) come insieme integrato di parola e musica: un’actio completa dicentis verba modulationi armonizata.
È però nella Divina Commedia che si esprime la summa teorico-pratica del pensiero dantesco sull’argomento. Qui la musica si fa specchio dell’ordine universale; contemplarla, ascoltarla e descriverla equivale a esprimere il geroglifico dell’universo così nella sfera fisica come nei regni dell’aldilà. Dunque se nell’Inferno impera la cacofonia e in Purgatorio la monodia, nel Paradiso si ascende verso forme di armonia e polifonia sempre più complesse.
La magia della musica ricompare nel canto II del Purgatorio, dove il primissimo incontro di Dante è con un caro amico: il musico Casella. Una rimpatriata che è una discreta autopromozione, giacché il vivo prega il morto di cantargli qualcosa, e la scelta cade proprio su Amor che nella mente mi ragiona, parole di Dante (Convivio 3), musica di Casella purtroppo perduta, ammesso che sia mai esistita. Tutti, compreso Virgilio e le anime in attesa di salire il monte, ne restano incantati, finché non giunge a rampognarli Catone Uticense, l’austero guardiano del luogo. Nel corso della sua ascesa alle stelle Dante farà altri incontri musicali di vario livello, come il liutaio Belacqua, uomo di proverbiale pigrizia (canto IV), i trovatori Sordello da Goito (canti 6-7) e Arnaut Daniel, il quale piange, in musica e in lingua provenzale, i suoi peccati: «Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan» (canto 26). (…)
Per non parlare dei molti brani di uso liturgico che risuonano sulle bocche delle anime purganti; si presume in canto gregoriano, ma talora a voce sola, talaltra come coro all’unisono, in alternanza antifonica o in combinazione di soli e coro. Evidente la loro funzione catartica, volta perlopiù a cancellare i residui dei peccati commessi meditando sulle virtù contrarie e sulla divina misericordia. Il loro catalogo include l’antifona mariana Salve Regina, due antifone per il proprium Missae, tre citazioni dall’ordinarium e altrettanti inni, sei Salmi, due allusioni alle litanie dei Santi e a un responsorio basato sul Cantico dei cantici. Nel XIII secolo era ancora lontana la tipizzazione unica del rituale romano; arduo immaginare quali intonazioni e quale stile melodico (sillabico, semi-ornato o melismatico) Dante avesse in mente di volta in volta. Magari a partire dalla sua esperienza di cristiano fiorentino praticante, visto che i suoi scritti teorici non contengono accenni in materia.
Un salto di qualità avviene con l’entrata nel Paradiso terrestre, e poi con l’ascesa lungo i nove cieli mobili del Paradiso vero e proprio dove ormai tutto è musica («la dolce sinfonia di Paradiso» evocata in 21, 60). Proseguono beninteso i canti liturgici e le monodie in latino e in volgare; anzi cantano un po’ tutti: dagli «augelletti per le cime» ai ventiquattro seniori, da Piccarda Donati a Matelda e alla biblica Lea sorella di Rachele, dal trisavolo Cacciaguida degli Alighieri a San Pietro e a Giustiniano.
Ed è proprio l’antico basiléus bizantino che, in apparenza ben informato sugli ultimi progressi dell’arte, rende conto al Poeta dell’uguale felicità di tutti i beati, anche i meno vicini a Dio: «Diverse voci fanno dolci note; / così diversi scanni in nostra vita / rendon dolce armonia tra queste rote» (6, 126). Danzano pure, come le tre ancelle di Beatrice che nel canto 31 intrecciano un «angelico caribo», una danza in tondo certo molto somigliante al genere profano e amoroso della canzone a ballo. E continuano i richiami al trobar provenzale; uno palese, l’incontro con Folchetto da Marsiglia (canto 9), l’altro occulto (20, 73-75) dove Dante riecheggia la quartina iniziale della più celebre canso di Bernart de Ventadorn: «Can vei la lauzeta mover / de joi sas alas contra’l rai, / que s’oblid’e’s laissa chazer / per la doussor c’al cor li vai»; nella parafrasi dantesca in terzine: «Quale allodetta che ’n aere si spazia / prima cantando, e poi tace contenta / de l’ultima dolcezza che la sazia». Oltre un secolo dopo la morte dell’autore originale, la stupenda canzone della lodoletta continuava a circolare, come attestano le molte fonti manoscritte e i rifacimenti in più lingue.