La Stampa, 8 febbraio 2018
La nuova trincea dei camalli del porto: «I partiti non ci chiedono nemmeno il voto»
Ti indicano subito un camion dell’esercito, in marcia sulla strada stretta fra due sequenze di grate oltre le quali sono accatastati i container, e poco più in là s’intravede il mare. «Fino al 2000 entravi e uscivi come ti pareva: forse era più pericoloso, c’è stato l’11 settembre, ok. Ma qui ormai sembra una striscia militarizzata, transenne, sbarre, soldati. È la declinazione della filosofia safety and security, si pensa molto alla protezione delle cose e poco alla sicurezza dei lavoratori». Pausa, mezzo ghigno. «In porto fatichi a vedere i portuali, che pure lo mandano avanti. Tremila persone includendo le varie mansioni: solo noi nel 2017 abbiamo lavorato per 220 mila turni, quarantamila in più dell’anno precedente e i traffici lievitano. Magari ci vogliono tenere nascosti...».
Luigi ha 47 anni ed è uno dei 1066 camalli di Genova, dall’arabo hammal che significa facchino. Non portano più sacchi sulle spalle, muovono controvento mezzi meccanici arpionando container a 60 metri d’altezza, per farlo si sono attrezzati con un’overdose di formazione. E le settimane d’avvicinamento alle elezioni coincidono con una partita cruciale per il futuro di chi campa sulle banchine: un emendamento alla finanziaria (lo ha proposto Forza Italia, segno dei tempi) libera ulteriori risorse per compensare con denaro pubblico i turni non lavorati e accompagnare in pensione chi può. E però i terminalisti e Confindustria chiedono alla Compagnia Unica, tecnicamente una società di servizi che difende la sua esclusiva definendosi parte del «sistema», di trasformarsi in agenzia: più competitiva, autosufficiente nei bilanci e destinata a subire parecchia concorrenza. Ecco perché Luca, seduto accanto al collega, la mette giù con dati crudi: «Ho cinquant’anni (l’età media è 45, ndr) e un figlio di sedici, sono qui da trenta e il mese scorso ho guadagnato 1500 euro con quindici turni, diventano 2000 se sei impegnato una ventina di volte. Siamo sempre reperibili, le chiamate accavallate una sull’altra, le navi arrivano a ogni ora e viviamo come se un giorno ne avesse 36 o 48. Se sei in festa al mattino, diventi arruolabile al pomeriggio entro 90 minuti con un sms, tranquillo alla sera e pronto per la notte. Oppure per fare cassetta estendi la disponibilità agli “anticipati”, turni diversi dai classici. Puoi comunicare che sei in ferie, ma il meccanismo ti spedisce in coda e sfumano troppi soldi». Il messaggio successivo non è subliminale
: «Le barricate non convengono a nessuno, farebbero scappare le navi. Ma se spianano noi, spianano tutti. So che il cassiere d’un supermarket, pagato peggio di me, farebbe la faccia storta. Eppure se ci radono al suolo s’azzera un’idea generale per calmierare il mercato e non svendere la mano d’opera. Non è la solita questione dei mitici camalli, quella ci ha proprio rotto il...».
Ora controlla il telefonino, lo hanno appena convocato per la fascia 13-19 e c’è da svuotare un cargo.
Nella piazzetta sotto gli uffici non si vede nessuno, «vent’anni fa avresti notato cento persone che parlavano di Genoa e Samp, di donne e di politica». Soprattutto, a un mese dal voto sarebbero comparse decine di manifesti elettorali orientati a sinistra. Oggi il «console» Antonio Benvenuti, il numero uno che è di Lotta Comunista e non voterà, assicura di non aver ricevuto neppure una richiesta per comizi alla Sala Chiamata. «Ci stanno mille persone – aggiunge un altro – devi riuscire ad aggregarle. La domanda ci sarebbe, manca l’offerta e mi pare che i partiti abbiano quasi paura a farsi vivi».
A Genova è tutta un’altra storia, rispetto all’epopea dei portuali che il 30 giugno 1960 respinsero con la guerriglia il comizio dell’Msi; che quarant’anni fa erano 6800, 2200 dei quali iscritti alla sezione «Antonio Gramsci» del Pci. Il numero, con generosi pensionamenti, era sceso a 630 dopo la privatizzazione del 1994-1995: moli in concessione ai terminalisti, che a loro volta hanno assunto propri dipendenti con cui i camalli si spartiscono il lavoro, a garanzie e tutele superiori. Ma tra chi oggi indossa la casacca Culmv (Compagnia unica lavoratori merci vari, l’acronimo originario) più del rimpianto prevale il timore che li assedieranno marchiandoli come un fortino: «Ovvio – dice Andrea – che si mitizzi il passato: raggiunti i 28 anni di servizio ne aggiungevano sette, andavi in pensione con 35 di contributi, uscita a 45-47, assegno decente, erano dipendenti pubblici. Adesso non proteggiamo privilegi, ma dignità. Altrimenti finisce che firmi contratti da sedici ore a settimana, come capita a quelli dei terminal».
Dal 2015 sono successe cose inimmaginabili, s’è materializzata Giorgia Meloni perché proprio un camallo, Riccardo Denegri, era candidato alle amministrative con Fratelli d’Italia. Più forma che sostanza, finora, a sondare gli umori sui grandi numeri pendenti a sinistra, con i grillini impopolari sebbene nessuno si dica certo di ciò che farà il 4 marzo. Vellicare la Culmv fa comodo, a ridosso d’una tornata elettorale: al centrosinistra che non può permettersi d’averla nemica, ai competitor che vorrebbero tanto espugnarla. Loro si confrontano a destra e a manca e capita ci sia sintonia con Giovanni Toti, il presidente berlusconiano della Regione. «Mi dichiaro in anarchia mentale – chiude Luca – confrontarsi con un politico per tutelare il posto non vuol dire stare con lui. E non è che fra noi manchino contraddizioni».
Alla fine la politica dovrà decidere se legittimarli ancora come un (dignitoso) mondo a parte, che ad altri attori del porto non piace: riconoscono l’escalation di produttività e l’aggiornamento, contestano la salvaguardia con fondi dello Stato che spingerebbe un segmento minoritario a lambire l’assistenzialismo.
Luigi va al sindacato: «Un’altra compagnia, la Pietro Chiesa specializzata in movimentazione del carbone, chiude e rischiano in 23: non li assorbiranno i terminalisti, ma noi con qualche sforzo. Perciò ci difenderemo così come siamo, capisci?».