il Fatto Quotidiano, 7 febbraio 2018
Prezzi record e crescita, perché le Borse crollano
L’ultimo avviso l’aveva dato, giusto prima di lasciare l’incarico, Janet Yellen, presidente della Federal Reserve. In un’intervista registrata venerdì scorso, andata in onda sulla rete Cbs domenica mattina, aveva parlato di “Prezzi delle azioni alti, con i rapporti prezzi/utili vicini ai massimi storici”. Una profezia avveratasi in tempo reale. Dopo nove anni di crescita quasi ininterrotta la borsa americana è crollata, trascinando con sè i mercati asiatici ed europei. Oltre 4 mila miliardi di valore persi dalle Borse mondiali tra i massimi del 29 gennaio e ieri. Quali siano le ragioni di una caduta così brusca, e cosa ci si debba aspettare dai mercati nel prossimo futuro, è argomento di dibattito tra analisti e investitori. Un bel carico di responsabilità nella gestione della faccenda ce l’ha ora Jerome Powell, nuovo capo della Banca centrale americana, che dovrà manovrare i tassi cercando di non fare danni in un contesto di mercati instabili.
Che le azioni avessero raggiunto valutazioni da record è un fatto, su cui gli analisti più prudenti insistevano da mesi. Prima del crollo, le principali società quotate a Wall Street, rappresentate nell’indice Standard & Poor’s 500, avevano raggiunto un valore medio di Borsa pari a 27 volte gli utili, il 30% in più della media storica, e un rapporto tra il prezzo e il valore del patrimonio netto pari a 3,5 volte, contro la media di 2,4 degli ultimi 10 anni. A meno di ritenere che un mercato possa salire all’infinito, contraddicendo una delle leggi più certe dell’economia, e del buon senso, una correzione era prevedibile. Anche se non di questa portata. L’economia reale, se si sorvola sulla crescenti diseguaglianze nella distribuzione del reddito (che sono l’ultimo problema degli investitori), gode infatti di buona salute, la migliore da anni. Tutti principali Paesi sono in crescita, con gli utili aziendali che salgono a doppia cifra: per quelli delle 500 principali società quotate in Usa, beneficiate dal maxi-taglio fiscale sugli utili varato dall’Amministrazione Trump, quest’anno si attende un più 18,4%.
“La preoccupazione sulla sopravvalutazione delle azioni c’era da tempo – dice Mario Seminerio, economista e autore del sito Phastidio.net – dopo l’accelerazione delle ultime settimane il mercato cercava evidentemente un alibi per vendere e realizzare i profitti. L’occasione è stato il dato di venerdì scorso sulle paghe orarie negli Stati Uniti, cresciute del 2,9% a dicembre, più del previsto”. La crescita dei salari indica infatti che l’inflazione potrebbe rialzare la testa.
Dopo la stagione delle politiche monetarie super accomodanti, con 15 mila miliardi di dollari immessi nel sistema dalle banche centrali negli ultimi 10 anni, che hanno portato il costo del denaro ai minimi storici, un repentino rialzo dei tassi, per contrastare l’inflazione, renderebbe più conveniente l’investimento in obbligazioni e metterebbe un freno agli investimenti delle aziende e ai consumi.
Ieri è stata un’altra giornata difficile, le Borse europee sono tutte scese pesantemente, con Milano giù del 2,08%, mentre quella americana ha oscillato tutto il giorno attorno alla parità, chiudendo alla fine in rialzo..
Come andrà nei prossimi giorni non è dato sapere. Quel che è certo è una ripresa della volatilità, cioè dell’ampiezza delle oscillazioni dei prezzi. L’indice Vix (volatility index, il cosiddetto “indice della paura”), rimasto piatto per mesi, negli ultimi giorni è impazzito, raggiungendo i livelli più alti dal 2011. “Economicamente non c’è nulla che giustifichi questi ribassi, i fondamentali economici restano buoni – ha detto ieri Paul Donovan, capo economista di Ubs wealth management – ma i trader che si erano dimenticati cos’è la volatilità si sono ora bruscamente risvegliati”.