Il Messaggero, 7 febbraio 2018
L’esperto sul crollo delle Borse: «Gli algoritmi hanno dato il via alla caduta ma i fondi avevano già iniziato la ritirata»
NEW YORK Che cosa ha causato il lunedì nero della borsa di New York? E che strascichi possiamo aspettarci nei prossimi giorni? Lo abbiamo chiesto al Timothy Anderson, managing director della TJM Investments, un’agenzia di brokerage che opera a Wall Street, e testimone diretto di quanto è accaduto nei giorni scorsi a Wall Street.
Anderson, può farci una cronaca della giornata di lunedì?
«Bisogna tornare a giovedì scorso, quando i Buoni trentennali del Tesoro sono saliti al 3% di rendimento, e quelli a dieci anni hanno guadagnato due decimi di punto, raggiungendo quote che non vedevamo da quattro anni. Il primo dato in particolare ha fatto scattare le decisioni simultanee di asset manager in tutto il mondo, forzati a spostare sul mercato dei bond i fondi fino ad allora allocati sul mercato azionario. Stiamo parlando di non più di 20-30 tra i grandi manager responsabili di portfolio miliardari. Sono loro che hanno iniziato i movimenti sul listino scatenando la valanga».La pausa del fine settimana ha ingigantito il fenomeno?
«C’è stata ulteriore tensione nell’overnight, dovuta alla mancanza improvvisa di liquidità che si era venuta a creare, e che si è riflessa nelle vendite all’apertura di lunedì. Poi ci sono stati due passaggi chiave per l’innesco dell’isteria del pomeriggio. La caduta della soglia dei 25.000 punti per il Dow Jones, e dei 2.700 punti per lo S&P 500 ha aperto i cancelli delle vendite dei derivati che hanno alla base l’indice della volatilità, e che sono la base di diversi fondi pensione. Il colpo di grazia è arrivato infine con l’ingorgo di vendite telematiche che non rispondevano più ad alcuna scelta razionale dei broker, ed è a questo punto che abbiamo registrato l’ora di terrore che ha bruciato 1.600 punti del Dow tra le due le tre di pomeriggio».
Lei sta descrivendo dinamiche funzionali del mercato, a parte il breve momento di isteria. Davvero non hanno inciso elementi di macroeconomia?
«Agente primario del crollo è stata la mancanza di liquidità che si verifica di fronte alle vendite massicce dei computer. I compratori si rendono conto a quel punto che il mercato è in caduta libera, e prendono il respiro in attesa di constatare quale sarà il nuovo punto fermo. Sullo sfondo c’era poi la coscienza che il mercato azionario aveva raggiunto i suoi limiti di espansione. Dall’inizio dell’anno il titolo della Netflix era cresciuto del 50% di valore; quello della Boeing del 20%. Il tutto al termine di 14 mesi di continua espansione. Sapevamo tutti che le capitalizzazioni di molte delle aziende erano diventate irrealistiche, e ci aspettavamo un riassesto dei listini».
I dati delle trimestrali sono comunque tutti positivi, e l’economia statunitense sembra in crescita vigorosa.
«Negli ultimi mesi abbiamo dato per scontato che questi risultati erano in arrivo, ma in realtà abbiamo costruito un’inflazione dei titoli di Borsa sulla pura speculazione. Nella realtà avremo bisogno della conferma che i capitali di ritorno scudati dalla riforma fiscale, tanto per fare un esempio, saranno davvero convertiti in attività produttive. Dovremo attendere i dati di crescita del Pil alla fine del primo trimestre per verificare se davvero stiamo marciando al passo del 2,7%. Nei giorni scorsi abbiamo pagato il prezzo di speculazioni che potrebbero non rivelarsi reali».
Qual è il messaggio che il presidente Jerome Powell ha diffuso lunedì pomeriggio?
«Un invito alla estrema prudenza. L’aumento dei tassi è dovuto, ma guai ad applicarli troppo in fretta».