Il Dubbio, 7 febbraio 2018
Breve storia delle larghe intese
Spira un vento d’intese, se larghe o larghissime, coronate da un governo politico o del presidente, lo si vedrà solo a tempo debito, sulla base del voto reale.
Quel vento, in Italia, non ha mai portato fortuna. È stato sempre tempestoso e spesso sanguinoso. Non solo le grandi coalizioni propriamente dette, cioè una stabile intesa tra maggioranza e opposizione, ma anche solo i momentanei giri di valzer tra parti della maggioranza e dell’opposizione hanno sempre spostato il barometro sul quadrante “tempesta”.
Il primo abbraccio contronatura fu, nel 1960, quello tra Dc msi e partito monarchico. Era anno di Olimpiadi, e come affrontarlo senza un governo almeno “provvisorio” in carica? Fernando Tambroni, l’incaricato, a modo suo era un avventuriero, senza correnti democristiane alla spalle. Era stato ministro degli Interni dal 1955 al 1959 ed era andato giù pesante come nessuno prima con dossier e intercettazioni: «Io a quello gli leggo la vita», era una delle sue interlocuzioni tipiche. Al congresso Dc del 1959 aveva chiesto l’aperura a sinistra, verso una maggioranza con il Partito socialista. Per il governo provvisorio si era accontentato dell’estrema destra, forse pensando di poter poi trattare da una posizione di forza con i socialisti. Ottenne una fiducia scarna con tre voti di maggioranza alla Camera e i ministri della sinistra Dc lo piantarono in asse seduta stante.
Tambroni provò a rinunciare: il rpesidente della Repubblica Antonio Segni, destrissima Dc, gli ordinò di insistere. Il governo nacque in aprile. In luglio fu travolto dalla rivolta popolare innescata dalla decisione del Msi di tenere il proprio congresso a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. I camalli si armarono di uncini e li usarono per buttare nel fontanone di piazza De Ferrari i congressisti. La rivolta di genova dilagò nei giorni seguenti: la polizia sparò a zero a Reggio Emilia, uccidendo cinque manifestanti, un’altra vittima si contò a Licola, in Sicilia. A Roma il campioned’equitazione Raimondo D’Inzeo, ufficiale dell’Arma guidò una carica di cavalleria contro i manifestanti, a Porta San Paolo, rimasta nella storia. Il 19 luglio Tambroni si dimise.
L’alleanza tra Dc e Psi che diede vita al primo centrosinistra, nel 1963, non era una larga coalizione e neppure un accordo ’ provvisorio’ tra maggioranza e una parte dell’opposizione. Era, voleva essere ed effettivamente fu una nuova e stabile maggioranza. Covava però ambizioni riformiste e questo non poteva essere accettato. Il solito Segni e il generale De Lorenzo, comandante dei carabinieri ex capo del servizio segreto dell’epoca, il Sifar, nonché punto di riferimento del Pci negli apparati di sicurezza dello Stato, minacciarono il golpe nell’estate del ‘ 64. Il ’ rumor di sciabole’, come lo definì Pietro Nenni fu sufficiente. I governi di centrosinistra, presieduti da Moro, brillarono per nullità.
La prima vera grande coalizione fu l’accordo tra dc e Pci che nel 1976 diede vita a un governo monocolore Dc, approvato grazie all’astensione dei comunisti. All’origine c’era la semplice impossibilità di formare una maggioranza, dopo le elezioni di quell’anno. Il Pci, che mirava a un’alleanza solida e progettuale con ’ le masse cattoliche’, al secolo con la Dc, si mise a disposizione, consapevole di muovere comunque un passo avanti rilevante sulla via della legittimazione a governare. Le motivazioni della balena bianca erano meno limpide. In diverse occasioni Moro e Andreotti le illustrarono all’ambasciatore Usa Gardner, che a nome della Casa Bianca teneva il pollice verso. In sintesi si trattava di varare riforme economiche necessarie per uscire dalla crisi dell’epoca ma impraticabili senza il semaforo verde dei sindacati e del Pci. Proprio grazie a quelle riforme, che strapazzavano di brutta gli interessi della sua base elettorale, il Pci avrebbe presumibilmente perso alle prossime elezioni tanti voti da restituire lo scettro alla sola Dc.
Quel voto doveva però arrivare al momento giusto. Dunque non nel gennaio 1978, quando il Pci minacciò lo scatafascio se non fosse entrato ufficialmente nella maggioranza, col voto favorevole e senza l’ipocrita ’ non sfiducia’. Moro convinse gli americani riottosi e i compagni di partito persino meno convinti. In cambio impose al Pci di regalare la fiducia a un governo che non teneva in nessun conto le indicazioni del bottegone. Il nuovo governo Andreotti, col Pci, in maggioranza, nacque poche ore dopo il sequestro del suo artefice e proprio la necessità di non metterlo in crisi ancora nella culla tacitò le tentazioni democristiane di trattare con le Br per salvare la vita del rapito. Il Pci chiarì subito che il prezzo sarebbero state ele elezioni anticipate e non ci fu più discussione.
Meno di un anno dopo, nel gennaio 1979, la Dc era invece pronta. La crisi ci fu, provocata dall’ingresso nello Sme, anticamera dell’euro. Nelle urne, come da previsioni morotee e andreottiane, perse due milioni di voti e imboccò una china dalla quale non si riprese più.
Il nuovo governo a mezzadria tra maggioranza e opposizione vide la luce nel 1993, sotto le mazzate di tangentopoli e dopo il referendum sulla legge elettorale che chiuse la parabola della Prima Repubblica. A guidarlo il presidente della Repubblica Scalfaro chiamò il governatore di Bankitalia, Carlo Azeglio Ciampi, con la missione ufficiale di portare il Paese alle prime elezioni con la nuova legge elettorale, ancora da definirsi. Il progetto segreto era più ambizioso. Messo a punto dall’ala socialista guidata da Claudio Martelli, ex delfino di Craxi impegnato in una guerra all’ultimo sangue contro il suo ex capo e protettore, e dal neonato Pds di Achille Occhetto, il piano prevedeva che il governo restasse in carica un paio d’anni almeno, mettesse mano ad alcune riforme portanti, chiudesse il capitolo tangentopoli e non solo a quella elettorale, forgiasse nella pratica di potere una nuova coalizione destinata a vincere le elezioni e di sfuggita disinnescasse il mostro populista dell’epoca, la Lega apparentemente inarrestabile di Bossi.
Il carroccio però subodorò il trappolone e prese le necessarie misure. Quando la Camera votò l’autorizzazione a procedere contro Craxi, i leghisti, al riapro del voto segreto, la respinsero. Montecitorio esplose. Volarono botte da orbi in aula, I commessi, desolati, rinunciarono a intervenire. Occhetto ritirò i ministri dal nuovo governo pur confermando la fiducia. Ma a quel punto si trattava davvero di un governo ponte e su quella catastrofe Berlusconi costruì le sue prime fortune politiche l’anno seguente.
Nemmeno dieci mesi e il problema si ripropose. D’Alema, asceso alla guida del Pds, aveva convinto Bossi a sfilare la Lega dall’alleanza con Berlusconi. Ilpresidente Scalfaro aveva dato tutte e due le mani promettendo la capo leghistache una crisi del governo in carica da appena nove mesi non avrebbe comportato nuove elezioni. Era unapromessa azzardata. Se il defenestrato si fosse impuntato, evitare nuove elezioni sarebbe stato impossibile. Scalfaroricorse a una moral suasion in versione hard. Terrorizzò il cavaliere promettendodi andare in tv a reti unificate per spiegareal colto e all’inclita che il Paese minacciava di precipitare nel baratro per l’indisponibilità di Arcore ad sostenere un governo la cui guida proprio Arcore aveva il diritto di indicare.
Il novizio si arrese. Indicò il suo ministro del tesoro, Lamberto Dini, un tecnico. Poi ci ripensò. Scalfaro andò avanti lo stesso. Berlusconi sbracò alla grande e scelse l’astensione. Il governo Dini nacque con il sostegno aperto del centrosinistra, di Rifondazione comunista e della Lega, «costola della sinistra» per assunto dalemiano.
Quattro anni più tardi il miraggio che avevano coltivato Berlinguer e, in forma decisamente meno netta, anche Moro si realizzò in versione farsesca. L’ex capo dello Stato Cossiga guidò una pattuglia di centristi eletti nelle file berlusconiane portandoli dall’atra parte del confine, a sostegno di un governo D’Alema. Fioccarono le dichiarazioni altisonanti. L’evento fu ammantato di un’aura epocale che non meritava. Arrivava in ritardo di vent’anni. D’Alema e Veltroni, portati per natura a strafare, si allargarono sino a promettere un commissione d’inchiesta sui crimini del comunismo, e chi meglio di Cossiga per presiederla?
Non se ne fece niente. La maggioranza perse rapidamente per strada proprio Cossiga. Ci aveva messo la faccia ma le truppe erano quelle di don Clemente Mastella, che aveva mire più concrete e terragne. Il èpicconatore, deluso, si ritirò. Il governo restò in carica il tempo necesario per bombardare la Serbia, essere travolto alle elezioni regionali del2000 e porre fine alla carriera di D’Alema, almeno come premier o aspirante tale. Nel 2001 Berlusconi raccolse trionfalmente i frutti.
Il governo tecnico di Mario Monti andò oltre le larghe intese. Lo votarono tutti tranne la Lega. Ottenne una maggioranza mai vista in precedenza e a dirla tutta è il modello di quel “governo del presidente” che potrebbe balzare fuori dal cilindro di Mattarella se dalle prossime urne non uscisse nessuna maggioranza possibile.
Le riforme che poi tutti hanno bersagliato e bersagliano ancora in campagna elettorale furono approvate con maggioranze bulgare. L’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, una follia come tutti ammettono oggi e come quasi tutti sapevano anche allora, sarebbe potuta passare per acclamazione tanti furono i sì che decretarono il trionfo di quella riforma costituzionale.
Ancora oggi quel passaggio viene accuratamente evitato dai suoi protagonisti, in una sorta di rimozione collettiva. Pesò certamente il ricatto europeo, che lasciava spazio limitato all’autonomia delle forze politiche e pesò forse ancora di più la mano forte del presidente Napolitano. Ma giocò un ruolo decisivo anche una debolezza intrinseca a un’incertezza dei partiti che scelsero un’abdicazione che è in realtà alle origini del caos che si profila ora.
Anche gli ultimi governi di larghe intese sinora, quello di Enrico Letta sostenuto anche da Fi e poi quelli Letta, Renzi e Gentiloni in versione ristretta, con solo i transfughi azzurri della sfortunata formazione di Alfano sono un parto di quell’abdicazione e dello smarrimento che ne è seguito.
Dopo le prossime elezioni larghe e/ o larghissime intese saranno di nuovo l’argomento all’ordine del giorno. Visti i precedenti, conviene procedere subito con gli scongiuri.