La Stampa, 7 febbraio 2018
I chip si fondono con il Dna e creano i biocomputer
Che cosa lega le civiltà dell’antico Egeo alle cronofotografie di Edward Muybridge, precursore dei fratelli Lumière che a fine Ottocento impressionò i contemporanei con la proiezione delle immagini in sequenza di un cavallo al galoppo? La risposta coglie di sorpresa: il trait d’union è il Dna, il nastro trasportatore della vita.
Grazie al Dna un team dell’Harvard Medical School ha archiviato i cavalli di Muybridge nel genoma di un batterio, l’Escherichia Coli. L’esperimento nasce dalla frustrazione di un biologo e neuroscienziato, Seth Shipman, per la mancanza di una tecnica con cui catturare il modo in cui alcune cellule del cervello cambiano identità e funzione. «Queste hanno un accesso privilegiato a una quantità di informazioni – ha spiegato a “Nature” -. Vorrei avere una sorta di registrazione molecolare dello sviluppo del sistema nervoso». Con questa ricerca si è avvicinato allo scopo.
Shipman e i colleghi, tra cui George Church, hanno sfruttato la capacità di una cellula di catturare ritagli di Dna da un virus invasore. Il team ha così disegnato un sistema in cui quei ritagli corrispondevano ai pixel di un’immagine. E l’arcaico filmato è stato «proiettato» in un organismo. Nello stesso campus un altro gruppo, quello di David Reich, ha incrociato i dati dei genomi di 19 individui di diverse civiltà dell’Egeo nell’Età del Bronzo: quella minoica a Creta, la micenea nel Peloponneso e le popolazioni della costa anatolica. L’inedita conclusione è che i tre gruppi sono imparentati. Discendono dai pastori neolitici che si erano stabiliti in Anatolia, millenni prima. Le guerre dell’antichità, da quella di Troia all’occupazione micenea di Creta, sarebbero state lotte tra cugini.
Gli studi di Harvard – pubblicati su «Nature» – mostrano in potenza molto più dei risultati descritti. I «mattoni della vita» – le proteine e gli acidi Rna e Dna – sono passati da oggetto di studio a strumenti operativi, con applicazioni inedite. I nuovi orizzonti si aprono grazie alla collaborazione tra biologi molecolari, genetisti e bioinformatici. Il tutto aumentato dalla potenza degli algoritmi, come sottolinea Reich: «Si vedono cose fino ad oggi invisibili».
I computer incrociano molti più dati e più velocemente. Ma la relazione è a doppio senso. La biologia computazionale ha cominciato a impiegare molecole organiche – Dna e Rna – per costruire realtà ibride come i bio-circuiti. Obiettivo: progettare tecniche per immagazzinare dati in sequenze di Dna. E, del resto, è questa la caratteristica per cui la doppia elica è predisposta: archiviare e trasmettere dati. Ora il sogno è realizzare un bio-computer che competa con i processori basati sul silicio e li superi. Il Mit di Boston ha programmato cellule di mammiferi. E ha costruito macchine di stato – sul tipo del registratore di cassa, un computer rudimentale ma efficace – basate su processi chimico-organici.
Ma il bio-high tech tocca anche altri aspetti: la lettura dei codici genetici diventerà sempre più veloce e portatile. «È la nuova frontiera della tecno-genetica. Leggeremo le sequenze di Dna su un notebook», annuncia Nick Goldman, ricercatore allo «European Bioinformatics Institute» a Cambridge. Goldman dirige un gruppo che applica l’informatica allo studio dell’evoluzione delle sequenze molecolari come base della diversità della vita. «Le tecnologie di lettura veloce sono già state usate per individuare che la carne di una balena pescata apparteneva a una specie protetta. In futuro incroceremo i dati del Dna di un alimento con quelli del codice genetico individuale e capiremo se funziona per la nostra dieta».
Il team di Goldman ha anche messo a punto un sistema con cui archiviare informazione digitalizzata – dai testi alle immagini – su Dna sintetico. «Il metodo presenta diversi vantaggi, soprattutto la durata, che può essere pari a centinaia di migliaia di anni. E, inoltre, c’è la questione degli spazi: tutta l’informazione circolante sul Pianeta potrebbe entrare in appena due metri cubi». E aggiunge: «Le spese iniziali per produrre Dna sintetico restano alte, ma le informazioni possono essere replicate all’infinito e a costo zero».
Alla Microsoft, intanto, è stata disegnata una struttura a origami per rendere più veloci questo tipo di bio-computer. E al «Biodesign Institute» dell’Arizona University è stato messo in circuito un «ribocomputer», basato su Dna e Rna. In cellule vive. Il veicolo è, di nuovo, un batterio E.Coli programmato. Ma è possibile un controllo remoto di questi computer viventi? «In teoria sì, attraverso i campi magnetici – risponde il ricercatore Alexander Green -. Credo che la combinazione tra chimica organica e silicio sia alla base del futuro dei computer». E, così, ognuno di noi potrebbe portare in sé centinaia di nano-computer in grado di generare informazione. Il tutto a costo zero, ma aprendo inedite questioni etiche e filosofiche: i geni degli ominidi e delle razze fantasma della preistoria si congiungono idealmente con lo spettro di una specie ibrida del futuro.