la Repubblica, 7 febbraio 2018
L’amaca
Il fatto che le Borse perdano perché l’economia torna a funzionare, i salari a risalire, il denaro a costare e i titoli di Stato a valere qualcosa (mi scuso per la sintesi, spero non troppo approssimativa) non contribuisce a smentire le dicerie e i pregiudizi più malevoli a proposito della finanza. Nel mio bar di riferimento, dove Wall Street e Francoforte non possono contare su molti investitori, si ha da sempre l’impressione che un conto è lavorare, altro conto fare quattrini in Borsa.
Ovviamente, siccome siamo gente semplice, consapevoli di saperne poco, siamo pronti a ricrederci e a dare retta al primo analista che spiega, invece, quanti e quali solidi vincoli leghino strettamente l’economia reale e quella cosiddetta virtuale. Non vi dico lo sconcerto, dunque, leggendo che anche il Sole 24 ore (che un avventore anziano ogni tanto compera confondendolo con la Gazzetta dello Sport) sembra sostenere la stessa tesi appena riferita, con uno spritz in mano, appena deposta la stecca, da un giocatore di biliardo: le Borse perdono perché il lavoro torna a valere qualcosa.
Pur disposti a qualunque ulteriore smentita, il nostro umore è incline a un moderato ottimismo.
L’idea che, per esempio, per diventare ricchi si debba comunque lavorare, ci sembrava oramai sepolta nel tempo. Abbiamo fatto un brindisi.