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 2018  febbraio 07 Mercoledì calendario

Il miglior attore di Spielberg? È il giornale (e vi dico perché)

Non c’è bisogno di andare a vedere l’ultimo film di Spielberg per sentirsi vecchi, ma aiuta. Solo noi reduci, che nei giornali c’eravamo già negli anni 70, possiamo infatti dare un senso a tutti quegli strani ed esotici aggeggi che si vedono in The Post, e spiegare al vicino di poltrona come funzionava l’informazione prima dell’informatica. 
Nessuno che sia nato dopo gli anni 80 può per esempio sapere che cosa sia quella grande macchina da scrivere con una pentola per fondere il piombo, che sputa righe incolonnate e poi ci stampa sopra caratteri al contrario, immortalata nella tipografia del Washington Post mentre compone gli articoli sui Pentagon Papers. Si chiama linotype, è ormai un cimelio, le scolaresche in visita al Corriere ne possono ammirare un raro esemplare nell’atrio di Via Solferino. Poi le colonne ancora calde si portavano sul bancone – anche questo si vede nel film – e insieme con i titoli composti a mano, carattere per carattere, venivano inserite in una grande cornice che era la pagina, stretta ai lati con una chiave. Per tagliare qualche riga a un pezzo bisognava toglierla letteralmente con una pinzetta, o segarla a metà. Tanto hardware e molto «hot», prima del software e della stampa a freddo. 
Gli articoli, ovviamente, venivano battuti a macchina, spesso portatile, come nella scena a casa del direttore quando si prova a sintetizzare in poche ore quattromila pagine di documenti top secret. Di solito se ne facevano tre copie in una, grazie a una velina di carta copiativa (da cui le «veline», intese come scopiazzature di comunicati ufficiali, poi diventate per estensione metaforica le ragazze che portano le notizie in Striscia ). Non esistendo le mail o la rete, bisognava farli arrivare fisicamente in redazione, dove c’era un collega che li editava a mano (metteva le maiuscole, gli accapo, correggeva gli errori) e poi li sparava in tipografia, qualche piano più sotto, con quell’altro strano aggeggio che era la posta pneumatica, una specie di tubo-cerbottana in cui viaggiava ad alta velocità, spinto dall’aria compressa, un bussolotto trasparente (sempre per le scolaresche: nella visita alla Camera dei deputati si può ancora vedere come funzionava).
L’emozione più grande, però, è quando alla fine di un braccio di ferro carico di pathos il direttore Ben Bradlee ottiene il via libera dalla proprietaria Katharine Graham e telefona (non in redazione ma in tipografia, al proto, figura mitica di operaio-capo supremo della stampa, che da un certo momento in poi assumeva i pieni poteri) per far partire la rotativa; e tutte le scrivanie e le sedie e i barattoli di penne tremano, perché è la stampa bellezza, e allora si stampava nei sotterranei facendo letteralmente vibrare le redazioni, con un macchinario che occupava interi saloni, faceva un chiasso infernale e andava avanti per ore (perché le tirature di allora, ahinoi, non erano quelle di oggi).
Era più difficile, o più romantico, o più bello fare un giornale? Di certo era più lento e faticoso. Pensate ai rapporti con le fonti prima dei cellulari. Si vede nel film il cronista che poi ottiene le carte segrete correre fuori dal giornale per chiamare col telefono pubblico a monetine, in modo da non essere intercettato. Niente WhatsApp, spiacenti. Oppure si vede il direttore con il suo staff, avvisato che il concorrente New York Times ha uno scoop sull’argomento, aspettare l’alba davanti a un’edicola per poterlo leggere. Niente siti online e rassegne stampa in tv, all’epoca. E quando la Corte Suprema emette il verdetto storico che consente ai giornali di pubblicare i Pentagon Papers, l’unico modo di sapere che cosa sta succedendo è un cronista sul posto che telefona in redazione, e ripete la celebre frase della sentenza: «La stampa è al servizio di chi è governato, non di chi governa». Niente diretta su Sky, sorry.
Mi sbaglierò, ma ho avuto l’impressione che Spielberg insista così tanto su tutti questi particolari quasi per fare di quel processo produttivo, la fattura e la stampa di un giornale, il vero protagonista del film. Lo si capisce nella scena in cui, finalmente libere di volare, colonne di migliaia di copie del Washington Post fresche di stampa si innalzano verso il soffitto sui nastri trasportatori, destinate alla bocca di centinaia di camion pronti a partire, per lo scorno e la furia del presidente Nixon (la puntata successiva sarebbe stata il Watergate, vera apoteosi della coppia editore-direttore del Washington Post ).
Mitizzandone la storia, che è proseguita dal piombo fuso ai bit, dalle veline ai tweet, Spielberg in fondo evoca lo spirito rimasto intatto della grande stampa indipendente. Trump non maledice oggi il Washington Post meno di Nixon solo perché lui l’ha letto in versione digitale.