Corriere della Sera, 7 febbraio 2018
I re dei bitcoin sbarcano a Portorico. E fondano la prima cripto-città
NEW YORK Un gruppo di ricchi signori (decine di milionari e qualche miliardario in dollari) che, sbarcati a Portorico, hanno occupato per intero un vecchio hotel sulle colline di San Juan. Durante il giorno vanno in giro su un bus a caccia di immobili e terreni da acquistare nell’isola devastata pochi mesi fa dagli uragani. Barbe lunghe, tenuta da Indiana Jones, qualche problema igienico (l’acqua corrente è ancora una rarità), più che investitori sembrano una banda di avventurieri eccentrici e un po’ stralunati (e forse lo sono).
Ma questa tribù di ricchi, soprattutto californiani, che hanno guadagnato una fortuna con i bitcoin e le altre criptovalute e sognano di fondare in mezzo ai Caraibi la prima criptocittà autogestita sono degli utopisti di tipo un po’ particolare. E non solo perché hanno miliardi da spendere: sono visionari che tentano un esperimento urbanistico basato sulla filosofia del decentramento totale e dell’abolizione di ogni autorità che è alla base della blockchain, la tecnologia di certificazione sulla quale si reggono i bitcoin.
Sognatori sì, ma attenti al portafoglio: diventati immensamente ricchi all’improvviso, non vogliono pagare le tasse. Si sono guardati in giro e hanno trovato in Portorico la destinazione perfetta, anche se inizialmente un po’ disagiata: la povera isola caraibica associata agli Stati Uniti (ma senza i pieni diritti di cittadinanza), tenta da anni di attirare investimenti esteri concedendo a chi arriva l’esenzione totale dalle tasse sui redditi e sui capital gain più altre facilitazioni fiscali per 18 anni per chi assume almeno tre portoricani pagandoli anche pochi dollari al giorno.
Sforzi vani, sembrava, dopo l’uragano Maria che il 20 settembre scorso ha desertificato mezza isola lasciandola senza acqua nè elettricità. E invece a dicembre i criptoutopisti hanno cominciato ad arrivare a ondate. Tutto è nato da due nativi dell’isola, i computer scientist Guillermo Aviles e Fabian Velez, e da Paul McNeal, americano della Virginia: prima hanno pensato di soccorrere Portorico coi droni, poi hanno fondato TokenCoin, una non profit per aiutare la popolazione con le criptovalute.
Chiamati all’appello, questi nuovi ricchi ci hanno messo poco a capire che l’isola offriva un’occasione unica, come ha spiegato al New York Times, andato a controllare in loco, uno di loro, Stephen Morris: «Non è solo che non ci piace pagare le tasse. Portorico consente soprattutto di costruire qualcosa di totalmente nuovo. Puoi farlo solo dove si ricomincia da zero. Come qui: l’uragano ha spazzato via tutto».
La guida di questa pattuglia di criptocolonizzatori che comprende, tra gli altri, anche il fondatore di CNET Halsey Minor e quello di Lottery.com Matt Clemenson, è guidata da Brock Pierce, direttore della Bitcoin Foundation e fondatore di BlockOne: la start-up che emette la criptomoneta EOS (la valuta oggi in circolazione vale circa 6 miliardi). Personaggio controverso (è stato denunciato per frode) sull’isola Pierce si muove come un santone. Ma poi, finiti i riti pagani tra gli alberi, si discute se acquistare la sterminata area della vecchia stazione navale Roosevelt Roads che comprende due istallazioni portuali e un aeroporto o se costruire la nuova città in un terreno vergine all’interno.
Magari finirà tutto nel nulla: quando hanno annunciato il loro progetto chiamandolo Puertopia, i criptomilionari si sono sentiti chiedere se stavano costruendo un luna park. Così la criptocittà è stata subito ribattezzata Sol.
Ma le autorità dell’isola prendono la cosa sul serio, sperano che porti sviluppo economico. Tra un mese il governatore parteciperà a Puerto Crypto, una conferenza sulla blockchain organizzata dai nuovi arrivati. Che faticano a superare la diffidenza dei locali: alcuni sperano che arrivino soldi e lavoro, ma altri notano che mentre i portoricani pagano le tasse e faticano per ottenere ogni autorizzazione, i nuovi arrivati non versano nulla e hanno pure corsie preferenziali.