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 2018  febbraio 06 Martedì calendario

La notte di Iacovone quando Taranto morì con l’idolo più amato

TARANTO E sono quaranta, Iaco, quarant’anni che quella lapide è sulla strada per San Giorgio Jonico, a ricordare la notte in cui Taranto morì, tutta, col suo centravanti. C’era la luna quando il più grande calciatore della più grande città italiana a non aver mai assaggiato la Serie A veniva falciato da un’Alfa guidata da un operaio dell’Italsider che fuggiva a fari spenti. Incontrò un uomo di 26 anni che poche ore prima aveva tentato, senza fortuna, di segnare alla Cremonese. In quell’attimo, con la morte che arrivava a 150 all’ora, Erasmo Iacovone diventava spirito e leggenda.
Massimo Giove e Ciccio Cavallo erano allo stadio Salinella, il giorno dopo, quando la bara sfilò tra i tifosi, accompagnata da un coro, Iaco, Iaco, che suona ancora, regolarmente, oggi. Sono nati entrambi al Rione Tamburi, l’agglomerato di case basse che sorge intorno alla più grande acciaieria d’Europa, l’Italsider, oggi Ilva, che era il progresso, era il futuro, prima che la morte di Iacovone, così metaforica e crudele, spalancasse il presente, un tempo lungo e malato che a Taranto ha portato crisi, spopolamento, miseria e la morte rossa. Ai Tamburi, più che altrove, dove le tombe sono impolverate dal vento che passando sui parchi minerari e sui rifiuti delle cokerie avvelena i polmoni dei 13mila abitanti sparsi su strade che un tempo avevano nomi di alberi, robinie, oleandri, eucalipti. Oggi hanno nomi di poeti e artisti, perché di alberi non ce ne sono più. La piazza principale è dedicata a Gesù Divin Lavoratore, lì è il Minibar, è lì che i ragazzi dei Tamburi s’incontravano, prima di andare a tifare al Salinella.
Massimo Giove oggi è il presidente del Taranto, allora era tifoso e raccattapalle di una società che ha molti record, tra numero di fallimenti e cambi di denominazione, e la B non la vede dal ’93: «Dopo l’ennesima annata fallimentare e l’ennesima retrocessione, ho deciso nell’ottobre scorso di prendere in mano la situazione. Perché il Taranto è una religione, è la cosa più bella che la gente di qui ha.
Siamo in D e fatichiamo, ma sono certo che alla lunga il nostro lavoro pagherà. Non è facile e in queste serie ci sentiamo stretti, siamo come professionisti costretti a fare i dilettanti. E se una riforma la Figc dovrà affrontare, quella deve essere la riforma dei campionati e l’introduzione delle seconde squadre delle big, tra di noi.
Quelle darebbero vera visibilità a un gioco che per noi è davvero a perdere». Di Iacovone Giove ha un ‘immagine antica: «I baffi, il gran colpo di testa, era capocannoniere quando morì e lottavamo per la A». Ora Taranto prova a sopravvivere, non solo nel pallone, come gli altri del Tamburi, agglomerato del miglior calcio tarantino, con le sue 35 società, 34 delle quali scomparse, e il grande stadio Tamburi vecchio, detto “u Maracaña”, chiuso perché non più bonificabile. Là si svolgono le storie che Ciccio Cavallo racconta ancora, mentre un sole deposto come un Cristo medievale scende oltre la ciminiera, azzurra, altissima: «Ricordo i nomi, le maglie della Polisportiva Jonica, ho tutto qui», su Facebook, «e ricordo i Tamburi, il nostro quartiere, le partite infinite con la polvere addosso, ma cosa ne sapevamo noi della morte, si giocava, si era giovani. I ragazzi di allora sono tutti morti e chi è vivo non fa altro che ricordare e rimpiangere. Ed è tutto iniziato con la morte di Iacovone, anzi, tutto è finito quarant’anni fa».
La città ha perso abitanti, dai 250mila del 1981 si è arrivati ora a meno di 200mila, l’Ilva è in amministrazione straordinaria e la sorte dei Tamburi, e quella di Taranto, sono affidate alla copertura dei parchi minerari, un’opera faraonica che troppo tardi prova a chiudere una ferita infettata dalla cancrena. Lavoro e morte, e vento, sempre troppo vento, dalle Murge verso il mare.
Nel 1978 tutto era ancora possibile. «La morte di Iacovone» racconta lo scrittore tarantino Giuliano Pavone, «è stata la nostra piccola Superga, la presa di coscienza della nostra finitudine, come Icaro che cade dopo essere stato troppo vicino al sole. Prima della crisi dell’acciaio arrivò quell’Alfa sulle nostre vite.
Lo stadio venne intitolato due giorni dopo a Iaco, nessuna scelta fu più giusta e nessun giocatore fu mai più amato da noi e forse da nessuna tifoseria, mai». Al centravanti di quel grande sogno spezzato sono stati dedicati libri, l’ultimo in uscita in questi giorni, di Davide Vendramin “Erasmo Iacovone. Il Taranto più bello”, un cortometraggio, una statua in bronzo sotto la curva. E poi c’è quella lapide, sempre vestita con i colori rossoblù. Racconta da sola, dando le spalle al mare, quel che poteva essere e non è mai stato.