Corriere della Sera, 6 febbraio 2018
Genova e pisa le duellanti
Nel XXXIII canto dell’Inferno Dante Alighieri fu spietato con la città di Pisa, fino ad augurarsi che l’Arno la inondasse e tutti i cittadini morissero annegati. Ma, poche righe dopo, lo fu altrettanto con Genova e soprattutto con i genovesi, spingendosi ad auspicare che fossero «nel mondo spersi». A suo modo l’autore della Divina Commedia fu dunque equidistante in merito al conflitto che aveva contrapposto Genova e Pisa nel Duecento, secolo in cui, quasi per intero, la posta in gioco tra le due città di mare era stata l’egemonia nelle acque del Tirreno. Precedentemente, a dire il vero, Genova e Pisa si erano sostenute l’un l’altra nella difesa dagli assalti saraceni che avevano conosciuto l’apice con la devastazione del porto genovese (934-935) quando – come riferisce Liutprando di Cremona – i nordafricani piombarono a più riprese sulla città, uccidendo quasi tutti gli uomini dopo aver saccheggiato le chiese. Pisa fu poi aggredita dai predoni «mori», ma in modo meno violento, nel 1005 e nel 1011. Verso la fine dell’XI secolo i corsari arabi si fecero meno aggressivi e tra le due città iniziò l’era della breve pace e della lunga competizione. Competizione ogni anno più accesa, fino allo scontro finale che è oggetto adesso di un interessantissimo libro di Antonio Musarra edito da Laterza: 1284. La battaglia della Meloria.
Si parla della battaglia navale che l’autore ribadisce essere «la più grande del Medioevo» tra due di quelle che il Risorgimento ci avrebbe poi «malamente abituato» a definir «repubbliche marinare», laddove «di repubblicano – per come intesero i maggiori – avevano in fin dei conti poco». Battaglia che, diciamolo subito, si concluse con una clamorosa vittoria dei genovesi e che «fu avvertita come decisiva per l’ascesa di Genova e la decadenza di Pisa».
Lo scontro tra le due città, scrive Musarra, non fu «affatto una faida di campanile, così come, talvolta, si trova etichettato». Si inserisce invece in quello che potrebbe essere definito «il secolo degli italiani». Quanto meno, afferma lo storico, «il secolo in cui gli italiani – termine qui utilizzato per praticità, sia chiaro – mostrarono un dinamismo tale da ritrovarsi a predicare in terre assai lontane e a commerciare su tutti i mercati di una certa rilevanza: dal Mar Nero alle Fiandre, dall’Africa settentrionale alla penisola iberica, dalle foci del Danubio all’Asia, dalla Provenza alle coste dalmate, greche, anatoliche, siro-palestinesi ed egiziane».
Il Duecento è il secolo della «rivoluzione commerciale» provocata da un clamoroso balzo nella modernità dell’economia di scambio e di mercato. Volendo fornire un «esempio inusuale», Musarra chiama a testimone delle proprie tesi San Francesco con la sua «condanna dell’accumulo improduttivo e la conseguente spinta all’investimento, mezzo per accrescere il bene comune (altro che disputa sulla povertà)». Dopodiché «la crescita di volume degli scambi incise profondamente sulle relazioni tra i principali protagonisti – potremmo dire, i centri propulsori – della cosiddetta “rivoluzione commerciale”, configurando, sovente, situazioni di conflitto».
Quanto ai contendenti di cui si parla in questo libro, «il Tirreno diventava progressivamente troppo angusto per contenere gli uni e gli altri». Le basi dell’antagonismo tra pisani e genovesi erano rintracciabili nel tentativo di accaparrarsi il monopolio delle rotte e degli scali lungo la direttrice che da Genova recava alla Sicilia e ai porti del Maghreb, e che, inevitabilmente, attraversava le acque della Corsica e della Sardegna, sulle quali entrambe le città avevano messo mano ricavandovi parte del proprio sostentamento». Ma sulla questione pesarono altri fattori: «Dall’instabilità interna ai rivolgimenti del quadro politico peninsulare ed europeo, al puro e semplice desiderio di preservare l’ honor civitatis». Il commercio, l’annona, l’entrata daziaria erano voci importanti, ma si mescolarono a una situazione internazionale – «utilizzo volentieri un altro anacronismo», scrive Antonio Musarra – «in veloce mutamento, capace di incidere profondamente sugli assetti di entrambe le città».
I rapporti tra Genova e Pisa iniziarono ad essere tesi nel Mar Tirreno proprio a causa della Corsica, isola irrequieta in cui il papato possedeva un cospicuo patrimonio fondiario. Tra il 1077 e il 1078 Papa Gregorio VII aveva incaricato il vescovo di Pisa, Landolfo, grande sostenitore della riforma gregoriana, di «domare» la Corsica. Papa Urbano II nel 1092 aveva premiato gli sforzi compiuti dai pisani nell’impresa voluta dal suo predecessore, elevando la loro città a sede arcivescovile e concedendo al presule i poteri metropolitani sulle diocesi corse. Concessione rinnovata senza problemi fino al 1120, allorché Genova, da tempo ingelosita del primato concesso alla città rivale, mise in mare una flotta per muovere all’assalto del Porto Pisano. L’operazione si concluse con un insuccesso, ma ebbe l’effetto di inorgoglire eccessivamente i pisani, al punto di indurre il loro arcivescovo a entrare in conflitto con Papa Callisto II. Poi, ai tempi del successore di Callisto, Onorio II, i rapporti tra Pisa e il Papa si ristabilirono. Nel frattempo, però, i genovesi avevano moltiplicato gli attacchi, piccoli e grandi: nel 1129 avrebbero inseguito i pisani sino a Messina, il cui borgo fu saccheggiato per aver dato riparo agli odiati rivali.
Nel 1133, in occasione dello scisma che sconvolse la cristianità occidentale, Pisa e Genova si ritrovarono dalla stessa parte, schierate a sostegno di Papa Innocenzo II in opposizione all’antipapa Anacleto II. Ma Innocenzo, che ne aveva bisogno in funzione antinormanna (oltreché per staccarla dalla diocesi milanese a lui ostile), elevò Genova ad arcidiocesi e le affidò la «cura» di tre vescovati corsi, sottoponendo di fatto al controllo ligure metà dell’isola. Ormai tra le due città marinare lo scontro era aperto e definitivo. Nel giugno del 1162 il quartiere genovese di Costantinopoli fu assalito dai pisani; i genovesi reagirono attaccando nuovamente Porto Pisano e depredando le navi di Pisa che incrociavano al largo della Corsica e della Sardegna.
Fu poi nel Duecento che le due città giocarono tra loro una complessa partita tra Guelfi e Ghibellini. Ai tempi di Federico II di Svevia, i genovesi appoggiarono l’imperatore (con una politica che, però Musarra definisce «ondivaga»). Il ghibellinismo genovese fu piuttosto «d’etichetta». La città, che soffriva dell’isolamento causatole dall’Appennino, non ebbe mai l’opportunità che aveva avuto Pisa di districarsi tra l’agro – «paludoso quanto si vuole ma, comunque, ampio» – e il mare. La struttura urbana genovese, così come la diffusione all’interno della città di un’economia incentrata sulla proprietà navale e sull’investimento, spingeva verso l’immagazzinamento di modeste quantità di merci, che, dunque, sostavano nel porto per il breve tempo del pagamento dei diritti di dogana. Piuttosto «erano i capitali a fare gola». E in ciò Genova ebbe una grande spinta verso la modernità.
Il resto lo fece quello che Musarra – riprendendo una definizione di Arthur Conolly volta a descrivere il conflitto tra Russia e Gran Bretagna per il controllo nell’Ottocento di alcune regioni dell’Asia centrale – battezza «Great Game mediterraneo». Un «grande gioco» condotto tra Costantinopoli, Alessandria d’Egitto, Creta, lo stretto di Messina e quello di Bonifacio, Baleari, Corsica, Sardegna, Sicilia, le coste del Maghreb, quelle iberiche fino alle colonne d’Ercole.
E siamo alla Meloria, al 6 agosto 1284. Il conflitto aveva avuto inizio attraverso anni di «azioni solo apparentemente estemporanee», mirate in realtà a «ritardare e ostacolare i piani bellici dell’avversario». Pareva, annota Musarra, «che le flotte delle due città andassero cercandosi a vicenda, senza mai trovarsi l’una di fronte all’altra, premettendo le ragioni della guerra di corsa, del blocco del vettovagliamento, delle comunicazioni e del trasporto di truppe armate allo scontro vero e proprio».
Il primo scontro, in maggio, tra le due flotte avvenne in Sardegna, a Tavolara, isola a cui, per parte pisana, il conte Ugolino della Gherardesca aveva voluto allargare il conflitto: i pisani ebbero la peggio perdendo quattordici galee. E venne il giorno della Meloria. A navigare in direzione della costa pisana erano state le navi genovesi, i cui equipaggi erano fiaccati a causa di questa navigazione. Ma i pisani non attaccarono al mattino, quando avrebbero potuto giovarsi della stanchezza dei nemici: attesero tutto il giorno, armati dalla testa ai piedi sotto il sole agostano, che giungesse l’ora della battaglia. I genovesi, invece, si erano riposati – senza indossare le armature – per gran parte della giornata e, quando attaccarono, fecero a pezzi gli avversari. Alla Meloria, sostiene Musarra, si scontrarono «sostanzialmente due opposte concezioni della guerra e della guerra navale in particolare». Più «antiquata» e «legata maggiormente alle tecniche e agli armamenti della guerra di terraferma, quella pisana, che prevedeva l’uso di galee corazzate – dunque più lente negli spostamenti – e di uomini pesantemente armati, oltre che di arcieri». La concezione dei genovesi era invece più «moderna» caratterizzata «dalla rapidità di manovra, dall’adozione di armature leggere e dall’uso prevalente di balestrieri». E i balestrieri sconfissero gli arcieri.
Genova trattenne in seguito oltre novemila prigionieri pisani. E il trattato di pace con Pisa venne solo quattro anni dopo la Meloria, nel 1288. A farne le spese fu il conte Ugolino, podestà di Pisa, che aveva cercato di districarsi tra le diverse istanze dei suoi concittadini e quelle dell’arcivescovo Ruggieri, per poi finire rinchiuso assieme ai suoi figli e nipoti nella Torre dei Gualandi o della Muda, dove morì di inedia. Forse addirittura indotto a cibarsi in extremis della carne di alcuni dei congiunti, come potrebbe aver lasciato intendere Dante nel XXXIII canto dell’ Inferno di cui si è detto all’inizio («più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno», ma i più sono convinti che l’Alighieri non volesse alludere a un caso di cannibalismo). In ogni caso si salvò un figlio di Ugolino, Lotto di Donoratico, che era stato catturato dai genovesi a seguito della catastrofe della Meloria e che fu incarcerato a Genova nella casa di Niccolò Boccanegra. Lotto sarebbe stato liberato nel 1292 – otto anni dopo essere stato imprigionato e tre dopo la morte di suo padre, dei suoi fratelli e nipoti – a seguito del pagamento di ventimila lire genovesi, oltreché della cessione di alcune proprietà nel cagliaritano e dell’impegno ad acquistare degli immobili nel distretto genovese. Cosa che gli avrebbe consentito di acquisirne la cittadinanza.
In passato, scrive l’autore, «si tendeva ad attribuire agli esiti infausti della battaglia un mutamento strutturale dell’economia pisana, costituito dall’abbandono generale della navigazione in favore d’un ripiegamento verso le attività di terra». Ma, «se la reale consistenza di tale mutamento è ancora dibattuta, senza dubbio non è più possibile attribuirne le cause alla Meloria». Semmai, ci si può riferire «a dinamiche complesse e di lungo periodo». Ad esempio, «il rapporto con gli altri agglomerati urbani dell’interno – in particolare con Firenze e Lucca —, la predilezione per determinate tipologie di merci», ma anche «la progressiva assunzione da parte di alcune società di mercato, generalmente a base familiare, di formule “aziendali”». Un fatto nuovo nell’economia pisana due e trecentesca è costituito, infatti, dal sorgere di compagnie bancarie e mercantili («diciamo, per far arrabbiare qualcuno, dal sapore squisitamente fiorentino», ironizza Musarra) dotate di basi e postazioni in tutto il Mediterraneo, capaci di garantire a Pisa «una discreta vivacità per buona parte del Trecento». E anche successivamente, dopo che i fiorentini di Gino Capponi, corrompendo il capitano del popolo Giovanni Gambacorta, conquistarono Pisa nell’anno 1406.