Corriere della Sera, 6 febbraio 2018
In morte di Elisabetta Terabust
A 71 anni è scomparsa ieri Elisabetta Terabust, étoile tra le più luminose che l’Italia abbia esportato all’estero. Si è spenta per un tumore con cui lottava da tempo, accudita dagli amici più stretti nella sua casa di Campo de’ Fiori a Roma.
La notizia ha scosso profondamente il mondo della danza: Terabust era amata non solo per la straordinaria carriera di ballerina, ma per quella che è stata la naturale evoluzione di un carattere generoso e rigoroso al tempo stesso, il suo impegno ai vertici delle compagnie di balletto nei principali teatri lirici: direttrice del Balletto della Scala (dal ’93 al ’97, e dal 2007 al 2008), dell’Opera di Roma, di MaggioDanza, del San Carlo di Napoli.
Era attualmente direttrice onoraria della Scuola di Ballo dell’Opera dove domani mattina sarà allestita la camera ardente, cui seguiranno i funerali alla Chiesa degli Artisti, la Basilica di Santa Maria in Montesanto di Piazza del Popolo. Nata a Varese il 4 agosto 1946 (il padre napoletano si chiamava Guido Magli, la madre francese Charlotte Terabust da cui prese il nome d’arte), era cresciuta a Roma nel quartiere di Villa Fiorelli: allieva della Scuola di ballo del Teatro dell’Opera, si era imposta presto nella compagnia capitolina, di cui era stata nominata prima ballerina nel 1966 ed étoile nel ‘72. A 26 anni volò all’estero, al London Festival Ballet (l’attuale English National), poi al National Ballet of Canada. Pur non dotata di un fisico convenzionale, spiccava per musicalità istintiva, salti aerei e batterie tipici dello stile italiano.
Quanto la donna era vulcanica e inquieta, tanto la ballerina era eclettica: le sue migliori interpretazioni abbracciavano il classico romantico di Giselle e Sylphide, il neoclassico di Balanchine e van Manen, le sperimentazioni di Tetley che l’aprirono al contemporaneo. Fu a lungo la pupilla di Roland Petit, al cui charme regalò temperamento, e divenne il perno morale del primo Aterballetto diretto da Amodio. Danzò con Nureyev, Bruhn (che fu suo mentore), Bortoluzzi, Bart e trovò nel critico Vittoria Ottolenghi un’amica influente. Sposata con il collega Giancarlo Vantaggio da cui divorziò, intrecciò una lunga e tempestosa relazione con il danzatore danese Peter Schaufuss. Non solo in privato, la danza per Terabust era un amore travolgente, un’arte da vivere in scena con verità e gioia, oltre le affettazioni della tecnica, nella tensione di una sensibilità d’artista che era croce e delizia. Ancora negli ultimi anni, la passione gonfiava le sue parole con tutta l’enfasi dell’inflessione romanesca, le velava gli occhi mentre raccontava la magia di una coreografia, la grandezza di un maestro, il mistero di un interprete, la speranza di un talento visto in sala ballo e di cui intuiva le potenzialità.
Perché, per lei, la danza era soprattutto gioventù: un vivaio da proteggere a spada tratta. Come quando, nel ‘95 sul palcoscenico della Scala, da direttrice-pasionaria si scaldò parlando della sensibilità del venticinquenne Massimo Murru e dell’emergente Roberto Bolle, «un marziano che quando partirà sarà un razzo»: fu lei a promuoverli entrambi primi ballerini. Una speciale affinità legava Terabust ad Alessandra Ferri, che ieri le ha dedicato un commosso post su Facebook: per lei, riportò alla Scala Petit.