Affari&Finanza, 5 febbraio 2018
Il petrolio e le nuove sette sorelle così i padroni dello shale oil Usa hanno battuto l’Arabia Saudita
Giovedì scorso negli Stati Uniti sono stati estratti 10,04 milioni di barili di petrolio. È stato battuto il record del novembre 1970, quando Nixon era alla Casa Bianca. È solo il preludio: l’Energy information administration nonché accreditati uffici studi, prevedono che a fine anno la produzione raggiungerà gli 11 milioni di barili, più di Arabia Saudita e Russia. L’America sta per diventare il primo Paese petrolifero al mondo, e il merito è dello shale oil. Altro che cowboy del fracking: compagnie come Chesapeake, Anadarko, Apache, Concho, non escono da un western. Gestite da ingegneri e finanzieri superqualificati, con i capitali freschi del venture, sono le nuove sette sorelle. Le nuove sette sorelle, intendiamoci, non hanno ancora sopravanzato quelle storiche – Exxon, Chevron, Shell e via dicendo quanto a dimensioni (la Exxon fattura 230 miliardi di dollari, la maggiore dello shale non arriva a 14), ma sicuramente per rapidità di crescita, prospettive di sviluppo, perfino solidità finanziaria. «Le major hanno perso un’occasione per colpa delle loro struttura conservatrice e burocratizzata», commenta Manouchehr Takin, già braccio destro di Zaki Yamani prima all’Opec e poi nel think-tank petrolifero che lo sceicco aveva fondato nei suoi ultimi anni di attività a Londra. «Ora le “vecchie” compagnie stanno cercando di correre ai ripari e, come le grandi società farmaceutiche, fanno a gara per comprarsi le startup più promettenti. Ma sono in ritardo, e hanno perso i dirigenti più innovativi perchè questi sono già andati a lavorare con le società dello shale, protagoniste assoluto del mercato del venture capital e della ricerca di questi anni». Sono le nuove sette sorelle, conferma la Energy Information Administration, che sosterranno lo sviluppo del settore in America, «almeno fino al 2040». E proseguiranno la loro corsa al dominio del mercato mondiale, dicono altre due fonti tanto asimmetriche quanto autorevoli: la Bce, che ha appena prodotto un working paper sull’argomento per il semplice motivo che il petrolio è fattore determinante dell’inflazione che a sua volta è la mission della banca, e la stessa Opec, che ha riconosciuto in un rapporto anch’esso di pochi giorni fa che è con queste compagnie, e con la produzione americana, che bisognerà fare i conti. «Lo shale oil dominerà il mercato nei prossimi anni, specie se a quello americano si aggiungerà quello canadese, russo e argentino», scrive preoccupata l’Opec. «I big dello shale hanno sparigliato ogni tavolo e hanno assunto un potere negoziale sui prezzi già superiore a quello dell’Opec», conferma Ed Morse, uno dei maggiori esperti di petrolio del mondo, capo della ricerca sulle materie prime di Citigroup. La produzione americana “trradizionale” era via via scesa fino a 4,6 milioni di barili all’inizio di questo decennio: il recupero è tutto dovuto allo shale. Non è stata un’ascesa facile. Oggi che il greggio è tornato, complice la ripresa mondiale delle economie e dei consumi, sul livello di 65 dollari al barile (in agosto valeva 50 dollari), le compagnie dello shale possono finalmente prendere fiato, ma negli anni passati è stato un massacro, una selezione darwiniana che ne ha sfoltito di due terzi il numero. E ha fatto perdere agli azionisti fiumi di denaro. «Da duemila pozzi di shale attivi – precisa Takin – si scese rapidamente a 400, il 78% in meno. Ora siamo già di nuovo a più di mille. Le compagnie intanto hanno abbassato in media il loro break-even point». Al momento dell’inversione di tendenza del petrolio, l’estate scorsa, Bloomberg – che monitora le prime 60 compagnie dello shale quotate in Borsa – fece il punto sulla lunga fase ribassista che era finita (da 150 dollari nel 2008 il greggio era sceso fino a un minimo di 26 nel 2015). Queste 60 società avevano chiuso in rosso per 34 dei precedenti 40 trimestri. Nel solo primo trimestre 2017 le stesse società, che già erano le sopravvissute a uno stillicidio di fallimenti nei tre anni precedenti che ne aveva sacrificate più di 100 sepolte sotto 70 miliardi di debiti, avevano bruciato 11 miliardi di dollari. La produzione nei due anni precedenti era crollata di un milione di barili al giorno, pari all’1% della produzione mondiale. Fine delle sofferenze Tutto questo, quasi di colpo, è finito, e oggi è dimenticato. Le compagnie sopravvissute si sono riprese alla grande, grazie al rialzo del greggio ma non solo: «Quello che lascia attoniti e ammirati – spiega Morse – è come siano riuscite ad abbassare il break-even, a migliorare la produttività, a cavarsela anche con un greggio a buon mercato». La fortuna aiuta gli audaci: dato che, per coincidenza, il greggio ha ricominciato finalmente a salire – secondo la Merrill Lynch potrà arrivare a 80 dollari entro fine anno – ecco che le regine (sopravvissute) dello shale si sono trasformate in altrettante galline dalle uova d’oro. Debiti azzerati, profitti crescenti, prospettive grandiose. Quanto ai corsi di Borsa, basta dare un’occhiata ai grafici che pubblichiamo per rendersi conto. Una bonanza, si sarebbe detto nei film western. Fattori positivi Tutto sembra andare per il verso giusto per le nuove sette sorelle. Uno dei problemi per le compagnie dello shale erano le proteste degli ambientalisti (il fracking è stato accusato addirittura di provocare terremoti) che ora sono scomparse vista l’idiosincrasia per questi atteggiamenti, piaccia o no, dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Un altro problema era trovare mercati di sbocco: intanto perché bisognava che la ripresa mondiale si consolidasse, il che è avvenuto con una rapidità avallata dalle continue frenetiche previsioni al rialzo del Fondo Monetario o dell’Ocse. Poi bisognava evidentemente vedersela con la concorrenza del petrolio mediorentale, ma l’offerta di questo è diminuita per una serie di motivi, dal caos in Libia, Venezuela, Iraq e Iran, agli auto-tagli che l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo si sono imposti appunto per rialzare i corsi (cosa che è andata a vantaggio loro ma anche delle compagnie americane). Infine, il petrolio è prezzato in dollari, e il dollaro era innaturalmente alto, il che comportava tentennamenti negli acquisti. Poi, come d’incanto, ha cominciato a scendere, e il ministro del Tesoro Steve Mnuchin, corretto senza troppa convinzione da Trump, ha candidamente ammesso a Davos che è proprio questo che l’America vuole. E anche le compagnie petrolifere. I nuovi equilibri «Si sono infrante le tradizionali simmetrie», osserva Angelo Baglioni, economista internazionale della Cattolica di Milano. «Prima, quando l’America importava decine di milioni di barili, aveva la preoccupazione di gonfiare il proprio disavanzo commerciale, con tutte le conseguenze negative. Oggi accade l’opposto: l’America importa sempre meno petrolio, e da quando Obama negli ultimi mesi della sua presidenza ha autorizzato l’export,che era vietato fin dai tempi della crisi del ‘73, ne vende all’estero in grandissima abbondanza. Per più di due terzi ormai è shale oil». Nel 2030, calcola l’Aie, il rapporto sarà di nove a uno. Il boom dello shale ha anche un motivo tecnico. All’inizio, quando arrivava in raffineria occorreva un processo di upgrading perché i particolati intasavano i processi, zolfo e idrogeno inquinavano l’aria, le olefine formavano sedimenti insolubili e causavano instabilità. Niente più di tutto questo grazie agli sviluppi tecnologici in ogni momento della filiera: «Lo shale oil che arriva in raffineria è pregiato e redditizio», conferma Takin. «Anzi, viene esportato anche perchè le raffinerie americane sono abituate a trattare un greggio più pesante, da cui si ricavano diesel e olio combustibile mentre lo shale è ottimo per la benzina». Alcune compagnie di shale non sono nate con la rivoluzione del fracking (ma molte sì) e hanno un passato come produttori di carbone, petrolio tradizionale, perfino legname. Le compagnie antiche La maggiore, la Devon, iniziò a estrarre petrolio convenzionale nell’Oklahoma negli anni ‘70, e ancora nel 2003 si allargò comprando per ben 5,3 miliardi la Ocean Energy specializzata nelle ricerche a grande profondità offshore. Poi, negli ultimi anni, la rifocalizzazione sullo shale con una raffica di acquisizioni mirate: la Chief Oil and Gas, che possedeva lucrose licenze nel bacino di Barnett Shale, per 2,2 miliardi nel 2006, la GeoSouthern Energy per 61, miliardi nel 2014, la Felix Energy nel 2015 a 2,5 miliardi per entrare nella promettente area della Powder River Basin, sempre nel midwest, e poi altre ancora. La Hess, la più antica, ha subito un’analoga evoluzione e ha venduto la sua rete di migliaia stazioni di servizio alla Marathon Oil (per 2,7 miliardi) che a fine 2017 l’ha rebranded Speedway, per investire nello shale, di cui ora produce mezzo milione di barili al giorno. Nuovo ordine energetico America First, insomma. Al punto che c’è chi comincia a preoccuparsi della reazione del resto del mondo al “nuovo ordine energetico mondiale”. Putin non resterà insensibile al sorpasso, scrive Business Week, e anche l’Arabia Saudita non vorrà farsi trovare spiazzata. Nuovi accordi fra i due giganti potrebbero nuovamente manipolare i prezzi in un modo o nell’altro. Ma in America c’è anche un’altra preoccupazione: i rialzi dei prezzi petroliferi, se sono un tonico per i produttori interni, comportano rialzi in tutti i costi dei consumi a partire dalla benzina. Senza contare l’effetto- scoraggiamento per gli investitori in energie alternative, che a parte l’aspetto ecologico sono ormai una bella lobby anche loro, e faranno di tutto per mettere ancora una volta a dura prova la “resilienza” dell’industria dello shale.