Affari&Finanza, 5 febbraio 2018
Banche, i risparmiatori restano senza giustizia Bankitalia e Consob più deboli, autogol del Pd
Luigi Pintor aveva sbagliato tutto. “Non moriremo democristiani”, scrisse sul Manifesto nel giugno 1983, celebrando la “non vittoria” elettorale della Dc. Trentacinque anni dopo succede l’esatto contrario. La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle crisi bancarie era nata così: una Santa Inquisizione che mette al rogo i responsabili di un falò da oltre 60 miliardi, quanti sono costati salvataggi e ricapitalizzazioni delle sette banche devastate in questi ultimi anni. Un Tribunale del Popolo che in nome del risparmio tradito porta tutti i colpevoli sul rogo: banchieri delinquenti e giudici compiacenti, Vigilanti confusi e politicanti collusi.
E invece, dopo tre mesi di lavoro, 155 sedute, 43 audizioni e 4.200 dossier depositati, a Palazzo San Macuto si celebra il trionfo del compromesso doroteo. Nessuna pira che brucia, nessuna testa che rotola, nessuna guerra che lascia sul campo morti e feriti (se non quei 2-300 mila clienti che ci hanno rimesso soldi e salute). I documenti finali approvati dalla Commissione sanciscono solo una furba Pax Bancaria di fine legislatura. Nessuno si fa davvero male, ma tutti escono molto malconci. C’è da meravigliarsi? La pace l’ha officiata Pier Ferdinando Casini, il più giovane dei vecchi democristiani, che ormai rispuntano ovunque tra i cespugli di destra e di sinistra. La relazione di maggioranza l’ha firmata lui: un capolavoro di equilibrismo che neanche Arnaldo Forlani, il Coniglio Mannaro della Prima Repubblica. È passata grazie alla sospetta assenza in aula di forzisti e verdiniani. E una vecchia volpe di Transatlantico come Roberto Calderoli non ha potuto che battezzarla come il “primo vagito” della Grande Coalizione Pd-Fi che vedrà la luce dopo il voto del 4 marzo. Chissà. Nel frattempo, chi si è perduto? Chi si è salvato? Le istituzioni “La Commissione è giunta a ritenere che in tutti e sette i casi di crisi bancarie oggetto dell’indagine le attività di vigilanza sia sul sistema bancario (Banca d’Italia) che sui mercati finanziari (Consob) si siano rivelate inefficaci ai fini della tutela del risparmio”. Letta così, la conclusione dei commissari farebbe anche un certo effetto. Se poi si entrasse nel dettaglio, e si chiarisse chi ha sbagliato e perché. Invece tutto resta vago e alla fine inconcludente. Così, la Banca d’Italia ne esce pulita nella forma: di certo nessuno ha violato il Tuf. Ma nella sostanza l’istituzione paga un prezzo, in termini di prestigio e di credibilità. Carmelo Barbagallo, capo della Vigilanza, si è difeso a fatica in audizione: sul mancato raccordo con la Consob, sugli atti ispettivi non trasmessi, sugli interventi non tempestivi sui vertici di Mps, Popolare di Vicenza, Etruria e Marche. Fabio Panetta, vicedirettore generale, è finito sotto i riflettori, tra incontri riservati richiesti dalla Boschi e “confidenze sull’ascensore” con De Benedetti. L’intero Direttorio, organo collegiale che ha ormai sostituito la “monocrazia” del passato, è finito suo malgrado nel tritacarne politico-mediatico. Ignazio Visco, bersaglio grosso del safari renziano, se l’è cavata. All’audizione di novembre, con stile e perfidia, la preda è diventata cacciatore: il governatore ha ribaltato le accuse sull’ex premier (“mi chiese di Etruria, pensavo fosse uno scherzo, e gli risposi che non potevo parlarne con lui ma solo col ministro competente…”). L’inopinato assedio di Renzi, che sul Colle ha scatenato l’ira funesta di Sergio Mattarella, gli è valso la riconferma per altri sei anni. Ma Visco, pur avendo vinto la partita, è comunque indebolito. Chi lo conosce bene confida: “Passata definitivamente la buriana, tra un anno potrebbe rimettere il mandato…”. Si vedrà. Nel frattempo, quello che si vede sono le crepe su Palazzo Koch. Alla Consob le cose sono andate anche peggio. Se a Via Nazionale non parlavano, a Piazza Verdi non vedevano e non sentivano. E se i mancati controlli sulle emissioni di bond e sui prospetti delle banche già pre-fallite non hanno distrutto irrimediabilmente l’immagine e l’affidabilità della Vigilanza di Borsa dipende solo dal fatto che il suo presidente, Giuseppe Vegas, è sfilato davanti ai commissari già scaduto dall’incarico. Era quasi inutile accanirsi su di lui. Semmai è proprio lui, astuto navigante già dai tempi della militanza burrascosa nel governo Berlusconi, che si è tolto l’ultimo sassolino dalle scarpe, rivelando le numerose sollecitazioni della Boschi sul salvataggio della banca paterna. Ma anche in questo caso, e al di là dei destini personali, l’istituzione esca a pezzi dal Sacco Bancario. La relazione finale propone qualche pannicello caldo, per evitare i crack futuri: più poteri investigativi a Bankitalia, freno alle “porte girevoli” tra vigilati e vigilanti, Procure distrettuali per le indagini sui reati finanziari. Serviva una Commissione parlamentare d’inchiesta, per mettere in fila un elenco di banalità di cui si parla già da anni? I partiti La politica voleva bastonare, ed è finita bastonata. Vale per quasi tutti i partiti, che da decenni trafficano con le banche e le mungono a dovere. Ma vale soprattutto per Matteo Renzi e il suo Pd. È stato Renzi a invocare per primo una Commissione, nel dicembre 2015, per “far luce su tutte le vicende bancarie degli ultimi vent’anni, da Siena a Banca 121”. L’ha brandita come una clava, contro i nemici interni (D’Alema e compagni) e quelli esterni (Visco e colleghi). Alla fine se l’è ritrovata in testa. Messo in mora da Visco. Attaccato dai grillini. Odiato dalle vittime degli ultimi dissesti, vittime della riforma delle popolari e del decreto sul bail in. Il declino del renzismo è cominciato lì, con il pasticcio delle banche. E nonostante le fatiche dei suoi “volonterosi carnefici” in Commissione (da Orfini a Bonifazi) non si è più fermato. Ma ancora peggio è andata a Maria Elena Boschi, il petalo più pregiato del Giglio Magico ormai sfiorito, che da ministro ha pagato carissimo il suo irrisolto conflitto di interessi su Etruria, vice-presieduta da papà Pierluigi. Le sue insistenze con l’ex ad Unicredit Ghizzoni, i suoi incontri a Laterina con i vertici di Veneto Banca, le sue visite indiscrete a Palazzo Koch, i suoi messaggini inappropriati e gli incontri mancati a casa Vegas, la sua sconfessione pubblica da parte di Piercarlo Padoan (“Non ho mai autorizzato altri ministri a parlare di banche…”): troppo, anche per l’allora potentissima zarina della consorteria toscana. Per questo, oggi, è diventata quasi “impresentabile” ovunque. Costretta a emigrare in Alto Adige, per lucrare un collegio sicuro. Una vacanza a Merano, ed è subito seggio. I politici Ad eccezione del duro e puro pentastellato in Commissione Carlo Sibilia e degli altri Cinque Stelle, politicamente troppo giovani per sedersi al banchetto consociativo, nessuno può scagliare la prima pietra, perché nessuno è senza peccato. Per le ragioni già dette, Pier Ferdinando Casini ha portato a casa il massimo risultato: seggio sicuro a Bologna col Pd, Relazione finale all’acqua di rose sulle banche. Leghisti e grillini sospettano lo “scambio inciucista”. Non ci sono prove. Ma parlando di democristiani, vale la regola di Andreotti: a pensare male si fa peccato, ma si azzecca sempre. Per ragioni uguali e contrarie, la vera vittima del Renzusconismo incombente è Andrea Augello, uno dei più doberman più cattivi in Commissione, censore severo dell’impeachment della Boschi su Etruria e del presunto insider trading di Renzi con Carlo De Benedetti (che al suo operatore di fiducia confida “il provvedimento sule popolari passerà, me l’ha detto Renzi…”). Il senatore azzurro sconta cotanta solerzia con il benservito: il Cavaliere non gli ha trovato un posto nelle liste elettorali del 4 marzo. E il Torquemada azzurro Renato Brunetta, stavolta, non si è stracciato le vesti. Anche qui: a pensare male… Con tutto quel che segue. I banchieri Una volta si chiamavano i Signori del Credito. Oggi la gente li inseguirebbe col forcone. L’ha ammesso persino il pio Casini: “Loro sono un vero cancro…”. Da Gianni Zonin, il “Cavaliere” di Popolare Vicenza con le magioni principesche da 1300 metri quadri, a Vincenzo Consoli, il “ragioniere” di Veneto Banca che volava in jet privato. Da Giuseppe Berneschi, già numero uno di Carige, a Massimo Bianconi, dg di Banca Marche. Per non dire dello stesso Pierluigi Boschi, che da vicedirettore generale di Etruria chiedeva consiglio al faccendiere piduista Flavio Carboni. Inchieste, arresti, processi in corso. Nessuno ha ancora pagato nulla. E anche i sequestri conservativi sono andati a vuoto: Lorsignori avevano già piazzato i patrimoni tra parenti e amici, e oggi risultano ufficialmente “nullatenenti”. Per le loro vittime, oltre al danno c’è anche la beffa. Nonostante le urla in piazza di Elio Lannutti, che da fondatore dell’Adusbef ha guidato cortei e denunce. Una vittoria morale, e niente più, per il paladino di correntisti, azionisti e obbligazionisti. I magistrati Ci mancava una macchia, anche sulla grisaglia dell’istituzione che più di ogni altra avrebbe dovuto stroncare il malaffare, e non sempre l’ha fatto. Ed è arrivata anche quella, Da Treviso a Genova, procure che non hanno agito, nonostante le segnalazioni di Bankitalia. Fascicoli accantonati o archiviati, toghe imparentate con consulenti delle banche indagate. Ma su tutto, svetta la figura ambigua di Roberto Rossi, procuratore di Arezzo, che mentre indagava sul pastrocchio Etruria era consulente di Renzi a Palazzo Chigi (con buona pace del Csm). A San Macuto Rossi ha alzato la palla al Pd con un giudizio indebito su Banca d’Italia (“Strano che Via Nazionale insistesse per una fusione con la Popolare di Vicenza…”). La “schiacciata” dem contro Visco è stata pronta. Ma la feroce gioia degli iconoclasti piddini è durata un attimo. Due giorni dopo si è scoperto che su papà Boschi pendeva un’altra indagine (falso in prospetto e ricorso abusivo al credito) che il procuratore si era ben guardato dal riferire ai commissari. “Non me lo hanno chiesto”, si è giustificato Rossi con tanto di lettera. Che Casini, naturalmente, ha considerato “esaustiva”. Così, tra camomille e veleni, è finita l’indecorosa avventura della Santa Inquisizione Bancaria. I cui miasmi già si proiettano sul dopo elezioni. Di Maio e Salvini già annunciano: “Con la nuova legislatura proporremo una nuova commissione d’inchiesta”. Intanto tutti colpevoli, nessun colpevole. Come nella migliore tradizione italiana. Come in quel vecchio, magnifico film di Damiani: l’istruttoria è chiusa, dimentichi. Ma come fai a raccontarlo, a chi ci ha rimesso i risparmi di una vita?