Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2018
Siamo a due minuti dalla mezzanotte nucleare
Siamo a due minuti dalla mezzanotte nucleare. Lo ha sancito la settimana scorsa “l’Orologio del giorno del giudizio” col quale dal 1947 il Bulletin of the Atomic Scientists – tutte teste d’uovo e molti Nobel riuniti dall’Università di Chicago – segna l’era in cui viviamo: quella nucleare. Il “Doomsday clock” di quest’anno non è tanto importante per essersi avvicinato di mezzo minuto all’Armageddon, rispetto all’anno scorso; ma perché solo una volta eravamo precipitati a due minuti: era il 1953, gli Usa stavano sperimentando la bomba all’idrogeno e nessuno pensava che la guerra con l’Urss sarebbe rimasta fredda per molto tempo.
Donald Trump ha una pesante dose di responsabilità. Il suo approccio alla minaccia (con i mutamenti climatici l’unica con la forza di distruggere il mondo) fu una constatazione durante la campagna elettorale: «Perché tutte queste bombe se non possiamo usarle?». Ma non pensate che sia solo a causa di Trump se oggi siamo così vicini al giorno del giudizio. Come tutti i suoi predecessori, anche lui ha aggiornato la “Nuclear Posture Review”: cioè quale ruolo devono avere le armi atomiche nella dottrina della difesa nazionale. Nel caso di Trump, opposto a quello di Barack Obama, l’arsenale nucleare ha un ruolo centrale. Come – la cronaca lo dimostra – è centrale per Kim Jong-un; sta diventando sempre più centrale per la Cina, che senza clamori Nord coreani, accresce il suo arsenale; e come, soprattutto, per la Russia.
«I principali attori nucleari sono nello stadio di una nuova corsa al riarmo”, spiega il Bulletin di Chicago per spiegare i due minuti. Questa fase l’aveva incominciata Vladimir Putin dopo la vicenda ucraina, per preoccupare gli occidentali che avevano approvato le sanzioni economiche. Lui e i suoi generali avevano incominciato a minacciare l’uso dell’atomica come non si era mai fatto prima, nemmeno durante la Guerra fredda.
Perché riarmo non significa più testate ma più denaro, più tecnologia e più strategie sull’uso di ciò che esiste. Sono 19.500 le testate nel mondo, il 93% delle quali quasi equamente divise fra americani e russi. Dal culmine della Guerra fredda, questi ultimi hanno ridotto dell’85% i loro arsenali nei quali tuttavia ancora esistono 1.550 testate attive per ciascuno, la gran parte delle quali caricate su missili balistici intercontinentali e con la potenza di distruggere l’intera area metropolitana di New York o di Mosca. L’idea di Trump sarebbe di ridurre la potenza di alcune per renderle utilizzabili. Il problema non sono queste diet-nukes. Esistono già, si chiamano bombe di teatro o da campo di battaglia: le hanno russi e americani e alcune di questi ultimi sono anche in territorio italiano, nelle basi aeree della Nato.
L’estrema gravità del comportamento americano e russo – alla fine più pericoloso delle smargiassate di Kim – è nel normalizzare la bomba: abbatterne un tabù universale, renderne possibile l’uso e annientare quell’equilibrio del terrore, della mutua distruzione che per la gran parte degli ultimi 70 anni era stata efficace nel rendere inammissibile l’atomica militare. È questo comportamento che giustifica le ambizioni Nord coreane, vanifica le pressioni sull’Iran, stimola indiani e pakistani a usare i loro piccoli ma distruttivi arsenali; che rende immorale l’NPT, il Trattato sulla non proliferazione secondo il quale i paesi “autorizzati” ad avere la bomba (Usa, Russia, Cina, GB e Francia) dovrebbero ridurre i loro arsenali; e induce in tentazione tutti i paesi del mondo con una geopolitica problematica.
Nel 1953 il bollettino degli scienziati ammoniva che «solo qualche altra oscillazione del pendolo, e da Mosca a Chicago le esplosioni atomiche segneranno la mezzanotte della civiltà occidentale. Il XXI secolo è iniziato da meno di un ventennio e siamo tornati al punto di partenza: rinunciando alla non proliferazione, russi e americani tornano a essere i grandi proliferatori.