Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2018
Sanità, spesa sempre più privata
La gigantesca newco per il welfare sanitario aziendale annunciata negli Usa da JP Morgan, Buffet e Amazon ha lanciato il classico sasso nello stagno del dibattito nostrano sul futuro del sistema delle cure e dell’assistenza. Riflettori accesi, quindi, sul pianeta della sanità integrativa, fino a oggi quel “secondo pilastro” del servizio sanitario nazionale, rimasto sottotraccia e cresciuto negli anni in modo a dir poco disordinato. Un caos non più accettabile: il modello Beveridge in cui lo Stato si assume l’onere totale dell’assistenza ai cittadini è arrivato a un bivio e ogni ipotesi di integrazione sembra non poter prescindere dall’ingresso di nuovi attori. Nessuna strada può essere esclusa e, anche solo a guardare le prospettive di mercato e le varie componenti della spesa sanitaria, è probabile che la soluzione si trovi in un mix di ricette. Purché non si rinunci a una governance politica “forte”, che garantisca libertà di scelta all’interno di un sistema di tutele complessive.
I dati parlano chiaro: i cittadini sono arrivati a pagare di tasca propria 37 miliardi di euro (valore in crescita), pari a un quarto dell’intera spesa sanitaria nazionale (150 miliardi di euro circa). Complice una serie di fattori: i tagli massicci degli ultimi anni (stimati in 10,5 miliardi di euro) al finanziamento pubblico delle cure, l’invecchiamento della popolazione e la mancata riorganizzazione dell’assistenza sul territorio, ma anche una domanda di benessere che continua a evolvere, il Servizio sanitario nazionale (Ssn) ha perso terreno. L’altra faccia della medaglia sono liste d’attesa e un accesso disomogeneo alle prestazioni. Senza contare la grande chance dei farmaci innovativi, che mette a dura prova la tenuta della spesa ospedaliera ma che nel lungo periodo riduce i costi di ricoveri e long term care e gli impatti socio-economici indiretti. In questo contesto, la pressione per ricette alternative cresce. E la sanità integrativa cerca nuovi spazi. Soprattutto, per ora, sul fronte del welfare aziendale, che anche in Italia si declina nelle principali industrie, entrando nei nuovi contratti grazie anche a politiche fiscali favorevoli. A fare il punto, nei giorni scorsi, è stata proprio Confindustria, nel suo primo rapporto sulla filiera della salute. Una presa d’atto di un settore che da solo vale l’11% del Pil e che non può più essere guardato come una mera voce di spesa, ma come un’opportunità. Anche di mercato.
A certificare lo scenario, è arrivata poche settimane fa l’Indagine conoscitiva del Parlamento sulla sostenibilità del Ssn. Che dà conto di un territorio, quello del II pilastro, molto controverso. A partire dai fondi sanitari integrativi ancora nel far west e perciò da sistematizzare. Una realtà molto complessa, composta da centinaia di fondi, casse ed enti eterogenei fra loro per coperture, premi, gestione delle attività e prestazioni. A prevalere sono i fondi aziendali, comunque mal distribuiti tra nord e sud del Paese. In campo anche le compagnie assicurative con le loro polizze malattia, che presentano costi tra i più elevati in Europa: non a caso, forse, le assicurazioni sanitarie volontarie coprono ancora appena l’1,5% della spesa privata. Infine, ma certo non per ordine di importanza, gli accordi di welfare integrativo che – sottolineano ancora i parlamentari – avrebbero l’effetto di tutelare soltanto i ceti medi e medio-alti. O comunque, chi un lavoro già ce l’ha.
La grande scommessa è far quadrare il cerchio: garantire a tutti l’assistenza, in un quadro di finanza sostenibile. Con un debito pubblico secondo soltanto alla Grecia e con un bilancio dello Stato sotto costante osservazione dei partner Ue, l’Italia non ha grandi spazi di manovra. Del resto, anche Paesi come la Francia, che alla sanità destinano il 2% di Pil in più rispetto a noi, hanno scelto un sistema ibrido, tra Beveridge e Bismarck. Che significa riservare la sanità pubblica alle fasce deboli e ai casi più gravi e aprire gestione della cronicità, nuovi bisogni di cura e riabilitazione a forme integrative private. In definitiva, a una mutualità sostenibile. Per tracciare un quadro della potenziale domanda basta, come sempre, partire dai dati che raccontano di una spesa out of pocket (tutta a carico delle famiglie) in cui a parte l’esborso per i ticket (3 miliardi), gli altri ingredienti – a cui il mercato potrebbe guardare – spaziano dalla diagnostica alle residenze per gli anziani, voce in forte crescita. E a queste voci tradizionali si somma tutto il mondo del wellness e della prevenzione, verso cui la popolazione è sempre più interessata. Il trend attraversa tutti i “big” europei: la fase di transizione riguarda i Paesi più avanzati, alle prese con il difficile equilibrio tra i bisogni e le richieste dei cittadini e l’esigenza di far quadrare i conti, ma coinvolgerà tutti gli Stati membri, anche alla uce degli obiettivi fissati per il 2025, anche in tema di sanità, nel cosiddetto “pilastro europeo dei diritti sociali” approvato a novembre scorso a Göteborg. L’obiettivo, anche in Italia, è trovare una strategia di governo per lo sviluppo delle varie forme di protezione, senza indebolire la qualità dell’offerta pubblica – che resta un’eccellenza mondiale – e senza rinunciare a promuovere interventi appropriati. Una sfida di sistema, che necessita di un patto tra tutti gli stakeholder e che la prossima legislatura non potrà ignorare.