il Fatto Quotidiano, 4 febbraio 2018
Luca Guadagnino: Il mio sogno è dirigere il Festival di Venezia. E magari vinco un Oscar
Scarpe e cappotto fuori dalla porta, sul pianerottolo: a casa di Luca Guadagnino si entra spogliati dalle sporcizie del mondo. Anche la vita comune resta ai margini. Dentro il suo appartamento di Crema si respira un po’ l’aria dei film da lui girati, con un tempo scandito secondo il suo stile, a volte rarefatto, condiviso con gli amici e gli attori di Chiamami con il tuo nome che entrano, escono, aprono il frigo e magari spadellano, la lingua inglese si intreccia all’italiano, sempre due toni sotto, nessuno urla, il telefono, quando squilla, e squilla spesso, disturba, e altera questo equilibrio essenziale (“Ho deciso, butto lo smartphone, voglio liberarmi da questa dipendenza”). Il televisore non c’è. Meglio parlare e confrontarsi. O meglio tirare giù lo schermo e guardare il cinema nelle giuste dimensioni. I libri non sono d’arredamento, ma un percorso. Giù in strada una sessantina di adolescenti presidiano il portone: aspettano Timothée Chalamet, giovane rivelazione di Chiamami con il tuo nome, pellicola candidata a quattro premi Oscar.
Perché Crema?
Coincidenza: dieci anni fa non volevo più vivere a Roma, ma non sapevo dove e senza lasciare l’Italia. Un giorno mi sono ricordato di una visita in questa cittadina per trovare un amico, e di quanto mi era piaciuta la sua atmosfera, così simile a certe illustrazioni di libri per ragazzi; inoltre ho sempre avuto una passione per il Nord.
Nebbia, campagna, silenzio.
È un posto distante dalle pratiche del mondo, la routine è molto riservata; mentre in queste settimane, dopo il successo del film, è scattato un corto circuito.
Con i ragazzi sotto casa.
La catalizzazione dell’attenzione sulla città non mi rende felice.
La sua fama sta alterando un equilibrio.
Da un certo punto di vista, questa è la mia vita, la mia quotidianità genera strane mescolanze. Però sono contento per Timothée: l’anno scorso non lo conosceva nessuno, ora è una superstar.
Da adolescente non inseguiva i suoi miti?
Volevo conoscere le persone che ammiravo, essenzialmente registi. Selfie, mai. La fama non mi interessa, non è un parametro.
Ci sarà un “però”…
Da ragazzino avevo una passione, quasi feticistica per Dario Argento. A 12 anni, vivevo a Palermo, un amico di mamma ci telefona: “Dì a tuo figlio che ho visto Argento seduto al ristorante”.
E lei?
Corsi al locale, da solo e a piedi: per guardarlo rimasi tutto il pomeriggio davanti alla vetrina.
Se ripensa a quella debolezza si imbarazza?
Molto. Anzi, chiedo ufficialmente scusa a Dario.
È spaesato da tale celebrità.
Perché non mi interessa, non sono abituato a vedere spezzato il ritmo della giornata; per me è un qualcosa di violento e incontrollabile: l’idea di un qualcuno che ti vuole perché sei famoso, mi suscita sentimenti strani.
Accade da sempre…
Oggi ci sono delle forme di fama più rapida, più brucianti, dove il tutto evapora in un attimo, dove vince l’immediatezza, il qui e ora.
Lei non è un regista seriale.
Marco Melani (critico cinematografico) diceva una cosa fantastica: “Si può fare cinema, ma anche si può non fare”. E a questo credo profondamente, penso veramente che noi possiamo inserirci in un’azione creativa, produttiva, riflessiva verso l’oggetto filmico, ma allo stesso modo stare fermi.
Senza ansia.
Non ho un ritmo fissato.
Quanto è una scelta artistica e quanto obbligata?
L’inconscio non mente mai e quindi sono molto scettico nel dare la colpa a ciò che arriva da fuori: se ci ho impiegato cinque anni e mezzo per realizzare un film, il motivo non è esterno, quanto da una resistenza interiore.
Ne è convinto…
Tra Io sono l’amore e A Bigger Splash, ho rifiutato decine di progetti, alcuni dei quali sono diventati film importanti.
Italiani o stranieri?
In Italia non mi è mai stato offerto un film.
Lei rifiuta…
Non sono in grado di girare qualcosa in cui non credo, capita solo con le pubblicità, ma è un altro mestiere, dove indosso un’altra divisa per uno scopo, una sorta di obbligo: guadagnare i soldi e sperimentare linguaggi.
Quando gli attori hollywoodiani descrivono la loro esperienza con i registi italiani, spesso parlano di sensibilità “latina”. È vero o è marketing?
Non lo so. Hollywood funziona come la corte narrata da Sofia Coppola in Maria Antonietta: fazioni pronte a fronteggiarsi, poi la Regina dà la tendenza e tutti la seguono. Comunque è una questione di marketing.
E i suoi colleghi italiani?
Nessuno di loro punta solo sui sentimenti, nessuno parte dal cuore, hanno piuttosto un linguaggio ben specifico, una cifra delineata, molto forte e strutturata: Sorrentino è interessato ai sistemi del potere, Garrone ama il concetto della fabula e dell’archetipo, a Virzì piace la commedia umana.
I registi la chiamano per consigli su Hollywood?
Alcuni sì.
Un consiglio fondamentale ricevuto.
È arrivato anni fa da una persona che non conoscevo ma ammiravo e ammiro: Jean-Marie Straub. Lo incontrai quando avevo 21 anni, gli chiesi: “Maestro, cosa devo fare per continuare nel cinema? Iscrivermi a una scuola di regia?”. Lui stoppò l’appellativo “maestro”, non “lo sopporto”, poi aggiunse: “Mai una scuola: il cinema non si impara lì”.
Secondo Abel Ferrara “il cinema è dei gangster. Chi lo fa è un gangster”.
Ha ragione. E magari uno non è un gangster ma un impostore; se non è un impostore è un saltimbanco; se non è un saltimbanco è un bugiardo. Se non è un bugiardo è un illusionista. Tutti i più grandi autori di opere d’arte cinematografica lo sono, non c’è altro modo: devi cercare di ottenere la fiducia di un gruppo di persone più o meno ampio e soprattutto devi trovare i fondi per portare a compimento un’astrazione figlia della tua testa.
Ha un team di lavoro.
Un gruppo di persone osmotico: ho lo stesso montatore da quasi 30 anni, lo stesso produttore, la stessa truccatrice, lo stesso parrucchiere…
Una famiglia…
Che c’è a prescindere dal set. Aggiungo Claudio Gioè, protagonista del primo cortometraggio, datato 1995.
Ha una preparazione cinematografica importante…
Vuole sapere il mio sogno più grande? Dirigere la mostra del cinema di Venezia.
Addio Barbera…
Il suo ruolo lo ricopre benissimo, il mio è un sogno e lo esprimo.
Come si trova a Los Angeles?
Città interessante, nella quale si mangia male, soprattutto perché sono spesso in albergo, e il cibo d’albergo è quanto di più pervertito ci sia. Per me il cibo è fondamentale…
Oltre al cibo?
Sono motivati dalle forme più crudeli di capitalismo, ma allo stesso tempo non hanno alcun senso di superiorità, sono profondamente convinti della necessità della conoscenza. Sono curiosi. Aperti. Generosi.
Su cosa li ha maggiormente incuriositi?
All’inizio per la mia pronuncia inglese.
Come lo ha imparato?
Grazie ai film, per tigna.
E dopo?
Per loro sono un autore, poi restano ammutoliti quando gli manifesto il mio interesse verso le loro forme di cinema, e il mio desiderio di girare una pellicola di super eroi.
Leggeva i fumetti?
No, però ho capito presto il loro appeal erotico: dei feticci del puro desiderio, un ultracorpo che ci serve per sognare.
Crede all’attore che recita come forma di psicanalisi?
Non è mai quella la motivazione, nessuno di loro si mette realmente in discussione: vogliono essere guardati, puntano a irretire lo sguardo del soggetto di cui hanno necessità. Il regista. Il pubblico. Un attore non guardato è un attore morto.
Quando i giovani le dicono “desidero fare l’attore”?
Provo sconforto: o tu hai un talento naturale sconvolgente al punto tale che sarai guardato sempre, come nel caso di Timothy…
Come ha scoperto Timothée Chalamet?
Presentato dal suo agente: cinque minuti e ho capito che era il protagonista.
Insomma, non incoraggia.
Difficilmente consiglio questo mestiere: è una trappola terrificante, è triste quando vedo una dimensione di illusione così profonda in soggetti che si ostinano a voler recitare, quando non hanno le qualità per andare avanti.
Gli attori la pressano?
No, vivo qui, a Crema.
Quanti copioni ha nel cassetto?
In questo momento sette.
Tutti differenti?
Non giro mai lo stesso film, anche se i critici diranno “non è vero, parli sempre dei ricchi in vacanza”.
“Chiamami con il tuo nome” narra di borghesi in vacanza…
Diciamo che presto il fianco.
Ha dichiarato: “Oggi gli intellettuali italiani non esistono”.
Mi pento quando pronuncio frasi a effetto: c’è un libro straordinario, La ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda, perfetto per capire chi è l’intellettuale e cosa vuol dire far parte di una generazione che forgia l’entità politica e sociale di una nazione.
Quindi?
Lei racconta le lezioni con Antonio Banfi (filosofo e politico), di battaglie furibonde e ideali; battaglie dove ci si scannava, con alla base un pensiero profondissimo. Leggendo quel libro non scorgo la medesima vibrazione nella società attuale. Trovo nomi isolati come Franco Cordero e Giorgo Agamben, e magari altri cento. Ma isolati.
Lei ama cucinare…
È l’attività che mi manca maggiormente in questo periodo.
Cosa le piace?
Le elaborazioni complicate (e mostra la sua collezione di testi, a partire dal celeberrimo L’arte della gastronomia).
Con Paul Bocuse…
È morto un maestro, una persona di importanza capitale per la mia vita: quando avevo 12 anni vidi il suo libro e misi da parte la cifra necessaria per acquistarlo: affascinato lo leggevo come fosse un romanzo. Quel libro esprimeva grande desiderio di vita.
Provava le sue ricette?
Un giorno mio padre mi beccò a spignattare invece di studiare. Lo buttò nel secchio. Anni fa ho raccontato questa vicenda a Maria Sole Tognazzi e lei, poco dopo, ha risposto con un gesto da amica vera, di una generosità rara: mi ha donato la copia del padre, con le sue annotazioni. Ancora la ringrazio.
Lei non ama le serie tv.
L’idea che la serie possa sostituire il potere del cinema, perché ha più tempo per raccontare le vicende, è una affermazione da stolti; l’idea che la serie tv rappresenti qualcosa di nuovo è da poveretti. Spesso le serie sono logorroiche o diarroiche, più che promotrici di un linguaggio nuovo.
Incollano alla tv.
Costruite con tattiche attente, ideate da gruppi di lavoro di dieci o quindici persone che costruiscono ogni episodio con delle trappole narrative che ti agganciano.
Una sua qualità.
So cosa desidero e lo faccio, non mi confondo.
Arbasino divide in: “Giovane promessa, solito stronzo, venerato maestro”. Visti i suoi 46 anni è in tempo per diventare “venerabile”.
Questo termine mi causa brividi sulla schiena, e il “maestro” mi irrita: quindi posso solo sperare non accada. Una volta ho incontrato Arbasino.
E come è andata?
Ero a Roma con Carlo Antonelli (direttore del museo di villa Croce). Pioveva. Traffico nel disastro. Alla fine, grazie al telefono, troviamo un taxi. Nell’attesa ci ripariamo sotto un portone. Che si apre e appare lui nella sua suprema eleganza. Lo fermiamo e iniziamo una chiacchiera piacevole, lui favoloso, divino, noi abbagliati, persi nella sua gentilezza. Arriva il taxi, ci saluta, apre la portiera, sale e se ne va.
Vi ha rubato il taxi?
Sì, però ci ha salutato.
Tutto ciò lo ha reso più etereo o molto terreno?
Solo favoloso. Noi costretti a camminare sotto la pioggia.
Vi eravate presentati?
No, solo inchinati: era più importante sfruttare quegli attimi per ascoltare una personalità del genere, che mettere davanti il nostro “Io”.
Per anni lei ha vissuto economicamente sulle spalle degli amici.
Per fortuna non ho avuto una famiglia ricca.
Per fortuna?
È molto difficile trovare le motivazioni giuste se hai le spalle coperte. Quello del cinema è un mestiere complicato e impegnarsi da una condizione non di privilegio, ti irrobustisce, ti forgia. Il bisogno è fondamentale.
Torniamo agli amici.
Per anni ho scroccato.
Com’era organizzato?
Non era dissimulato, dicevo semplicemente: “Non ho soldi, datemi una mano”
In quanti l’aiutavano?
Parecchi, persone che oggi sono miei collaboratori o amici fraterni. Alba Rothvacher mi ha salvato il culo; Fabrizia Sacchi pure, Walter Fasano non ne parliamo.
Senza sensi di colpa?
All’inizio, sì. Poi un giorno trovo in una bancarella una vecchia autobiografia di Polansky, la leggo, e lui dice: “Se non avessi avuto coloro che sono stati la mia famiglia e il mio sostentamento che mi hanno campato per più di 15 anni, non avrei mai potuto fare il regista”.
L’impulso di mollare?
Neanche per un secondo.
Woody Allen continua a venir accusato di molestie.
(Guadagnino adotta un tono secco, da cronista leggermente infervorato e snocciola una conoscenza assoluta di tutto il processo, la vita, la filmografia del regista) Il Diritto viene prima di tutto, e due Corti hanno riconosciuto la sua non colpevolezza per le accuse di 25 anni fa.
Lo ha mai conosciuto?
Sì, ed è stato divertente, ho scoperto un omino dimesso, attento ad ascoltare.
Ascolta?
Tutti i grandi lo fanno.
Con chi andrà agli Oscar?
Con mia sorella, il mio compagno non vuole venire. È timido.
Vincerà?
Non lo so. Forse almeno uno sì…
Twitter: @A_Ferrucci