il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2018
In principio fu “la Fossa”. L’alba dei demoni in città
Milano, San Siro. Corre l’anno 1968 e sulla rampa 18 dei “popolari” del Meazza un gruppo di ragazzi si presenta allo stadio con maglie rossonere, bandiere, sacchetti di coriandoli e un drappo rossonero: è l’atto di fondazione del gruppo ultras del Milan Fossa dei Leoni ed il ’68 è l’anno di nascita del movimento ultras italiano. Fotografie sbiadite in bianco e nero, un effetto dissolvenza in cui volti, capelli, vestiti, stivaletti, voci, sogni, utopie e disillusioni osservati oggi raccontano un’Italia che si è trasformata anche sugli spalti di uno stadio.
Chi sono questi ragazzi dai volti nascosti da sciarponi di lana, passamontagna e foulard con i colori delle squadre e non della militanza politica? Cosa desiderano? Da dove vengono? Chi sono Pompa, Giò, Margaro, l’Imperatore, Karma, Beppe Rossi? Callaghan? Sono i pionieri di una nuova sottocultura giovanile che mobiliterà persone e passioni per decenni.
A partire dal biennio 1968-69 – una fase di cambiamento sociale e culturale irreversibile – negli stadi italiani compaiono i primi ultras: giovani antagonisti, estremisti politici disillusi, parossistici amanti del calcio, o meglio, di una squadra di calcio. Operai di Mirafiori come i torinesi Giò e Beppe Rossi, compagni e camerati fiorentini come i carismatici Pompa e Pampa, figure mitiche come Geppo il romanista, leader come il genoano Callaghan. Proletari, disoccupati, studenti, professionisti, tossici tutti insieme dietro fumogeni e bandiere, introducono elementi di novità e di radicalità nella forma e nell’essenza del tifo. Sono loro che espongono striscioni di dimensioni e denominazioni inedite, con ricorso a termini di stampo militaresco (brigate, commandos, guerriglieri) ad animali aggressivi (pantere, aquile, leoni) ai movimenti politici di massa (Collettivo, Fronte, Armata, Hooligans, Fighters, Boys, Skins, Korps, Bronx, Ghetto, Fedayn, Tupamaros). La stella a cinque punte e la chiave inglese, la croce celtica e Che Guevara, teschi umani ed armi di vario genere. In origine utilizzando semplici e tradizionali bandiere, poi negli anni con spettacoli più complessi e fantasiosi: coriandoli, rotoli di carta, sciarpe, fumogeni, torce, estintori, palloncini, strisce di stoffa o plastica, bandierine, bandieroni, fino ad arrivare a grandiosi spettacoli coreografici degli Anni 90.
I gruppi prendono posizione nelle curve dietro la porta, i settori più economici. La curva, il territorio assume una sacralità simbolica e rituale. Nasce così il mito della curva “Zona Temporaneamente Autonoma”, per dirla con il filosofo, anarchico, saggista, poeta e scrittore statunitense Hakim Bey: La Maratona degli Ultras Granata, La Sud della Fossa dei Leoni del Milan, la Nord interista, le Gradinate Nord (Genoa) e Sud (Sampdoria) di Genova, La Fiesole di Firenze, La Sud dell’Olimpico di Roma, la Ovest di Catanzaro.
Muta il suono della folla: tamburi, grida e canti spontanei con testi codificati e melodie che riprendono i canti politici, rock e tradizionali. Gli ultras codificano metalinguaggi, si esprimono con slogan, scritte sui muri, manifestazioni di piazza, blocchi stradali, boicottaggi, gemellaggi ideologici o etici. Si sovvenzionano attraverso fanzine auto-prodotte, adesivi, sciarpe.
Un mondo “romantico”, di massa, che a partire dagli Anni 90 degenera tra contraddizioni e derive ingestibili di cui lo stesso movimento ultras è vittima: la politicizzazione, la commercializzazione, la violenza irrazionale e vandalica, la creazione di gruppi di potere e interesse e i frequenti rapporti tra ambienti della criminalità organizzata e gruppi ultras di alcune metropoli, affini per frequentazioni e aree di interesse, che nelle curve hanno potuto riciclare denaro e ampliare mercati e affari.
Gli ultras si scontrano con gli avversari dentro e fuori gli stadi. La violenza, simbolica e fisica, è intesa come difesa della territorialità, lo scontro con rivali e forze dell’ordine come “dovere morale” ed esaltazione “deviante” di valori, origini, identità cittadina, regionale, morale, sociale e politica. Ma la violenza causa anche morti, come Paparelli, Fonghessi, Spagnolo, Filippini, De Falchi fino a Raciti, nel 2007.
La curva è anche un laboratorio politico e sociale degli ultimi cinquant’anni. Infatti se dalla nascita la cultura ultras è dotata di una carica antagonista e di insofferenza verso ogni forma di controllo, nei decenni successivi la destra radicale ha trovato in alcuni stadi terreno fertile, intolleranza e neofascismi hanno allevato nelle curve abbandonate dalla sinistra radicale – dopo una iniziale e poi intermittente infatuazione – un humus che ha pervaso i rivoli del malcontento popolare incanalandolo verso Forza Nuova e Casa Pound.
Sugli ultras, infine, le forze dell’ordine e i governi hanno per anni sperimentato tecniche di controllo e repressione che sono poi state applicate altrove: dal Daspo urbano alle tecniche antisommossa somministrate per anni nelle curve e poi nelle piazze (Genova 2001 docet), fino ai morti e ai feriti causati dalle Forze dell’Ordine (Ercolano, Sandri, Aldrovandi).
Cinquant’anni di movimento ultras, dalle sue origini nella temperie politica del l’68 ad oggi, hanno quindi costruito una memoria collettiva, un agire che – considerato “impolitico” e illegittimo – ha dato invece forma e voce all’immaginario e allo stile di vita di una consistente parte di popolazione, con rivendicazioni e bisogni pratici e simbolici, che ancora non trova comprensione nel vocabolario politico tradizionale.
Gli ultras italiani hanno costruito nel bene e nel male, tra contraddizioni, esasperazioni ed infiltrazioni politiche e delinquenziali, la propria identità soprattutto nel rappresentare una forma di opposizione, per quanto imperfetta, alle politiche commerciali di tv, società sportive e Lega Calcio ma anche alla retorica del sistema dominante tout court. Una visione antagonista del proprio ruolo all’interno del sistema-calcio e della società in generale, con atteggiamenti e comportamenti che oggi confluiscono nella spettacolarizzazione massificante del “calcio moderno” con la carica mediatica conseguente.
Gli ultras, questi “demoni” metropolitani, sono in realtà i figli, gli studenti, i lavoratori e i consumatori delle nostre città. Probabilmente nei prossimi anni sarà possibile estirpare la loro rabbia dalle curve, ma non eliminare le contraddizioni che porteranno la stessa rabbia a esplodere in nuovi luoghi del conflitto, che ancora oggi non riusciamo a scorgere.