La Stampa, 5 febbraio 2018
La disoccupazione è quasi al 20%. E le donne sono costrette a lavorare per un euro l’ora nei call center abusivi
L’umore a Taranto dipende anche da dove tira il vento. Se soffierà verso il quartiere Tamburi o verso il quartiere Paolo VI o più su, verso il paese di Statte, portando con sé i fumi e le polveri dell’Ilva. Qui ti dicono: per capire Taranto non devi guardare in alto, devi guardare in basso. Lo dicono a tutti e tutti guardano in basso e vedono a terra la polvere rossa e dicono «Oooh». Ma non è vero: per capire Taranto la devi guardare dall’alto, dalle immagini del satellite. Il blu scuro del Mare Piccolo, il blu chiaro del Mare Grande, il verde dei campi, il grigio della città e poi il nero dell’Ilva. Il nero sono i famosi parchi minerali, montagne di carbone e materiale ferroso che volano via col vento e ora cominceranno a coprirle con una struttura progettata dall’azienda che ha messo in sicurezza la centrale nucleare di Chernobyl. Ma bisogna guardare bene. Allargare l’immagine. L’Ilva è molto più grande, ha un perimetro di 26 chilometri e a fianco ha le raffinerie Eni. Ilva e Eni, si intuisce a occhio nudo, sono più estese di tutta Taranto. E con le loro ciminiere stanno addosso all’angolo di mondo che più di ogni altro sorrideva a Ovidio.
Nel 1971 l’Ilva, allora Italsider, era attiva da sei anni. All’inaugurazione era arrivato Aldo Moro e aveva parlato della grande occasione del Sud, delle terre espropriate ai latifondisti, del progresso, della fabbrica che portava il futuro. Poi nel 2012 hanno di nuovo espropriato, stavolta al padrone dell’Ilva, Emilio Riva, e senza nemmeno un processo, sulla base di un disastro ambientale che pare evidente a chiunque, ma non ancora a un tribunale. E sulla base di un futuro immaginato da Moro che non ha portato poi tutti questi soldi, ma malattie e un panorama desolante. E, insomma, in quel 1971 a Taranto arriva Walter Tobagi per il Corriere d’Informazione e scrive dei «metalmezzadri», le gente che era passata dai campi all’altoforno, «gli stupratori che ringraziano lo stupratore». I vecchi qui ricordano che nel dopoguerra si diceva «siamo ai piedi di Cristo». Oppure «la fame ci mangia». Si facevano i salti mortali per mettere qualcosa in tavola. Poi arrivò la fabbrica. Con gli straordinari si guadagnava meglio di un insegnante, con quanto aveva studiato. E dopo otto ore a casa a riposare, nessuna preoccupazione. Antonio Cederna parlò di processo barbarico di industrializzazione. A guardare il profilo, con Ilva, Eni, l’Arsenale della Marina militare, la Nato, il porto rutilante, il processo è concluso. Uno degli angoli più belli del mondo è azzerato.
Alessandro Marescotti quando nel 1991 scoppiò la Prima Guerra del Golfo aveva 33 anni. Insegnava storia e italiano alle superiori e faceva parte di un gruppo pacifista, ambientalista, solidarista. Era in contatto con altri attivisti e tutti loro si chiedevano come usare i computer per tenersi «connessi» e organizzare le loro piccole forze antimilitariste. Dicevano proprio così, «connessi». Un anarchico americano, Tom Jennings, aveva messo a disposizione un software libero che Marescotti e gli altri si presero, e tirarono su una specie di «paleointernet» privato che funzionava con tecnologie oggi archeologiche ma allora miracolose: misero in rete anche una caffettiera come il Commodore 64, e nelle loro «paleomail» compariva una parola per volta. Così nacque Peacelink, il gruppo che nel 2005 entrò nel database Eber e scoprì che a Taranto c’era l’8,8 per cento della diossina industriale europea. «Ci aprì il Tg3 regionale, ma il giorno dopo nessun partito disse una parola. Nemmeno Nichi Vendola, che era presidente della Regione da pochi giorni», ricorda Marescotti ai tavolini di un bar di Taranto.
La fabbrica e la tradizione hanno portato una lunga alternanza fra giunte comuniste e giunte democristiane, e nella Seconda Repubblica arrivò il telepredicatore Giancarlo Cito, e poi Forza Italia, la sinistra più radicale, ora il Pd. Un andirivieni nelle nebbie. Ora dovrebbero essere praterie per i Cinque stelle, anche se i due parlamentari eletti nel 2013 hanno subito abbandonato il Movimento e uno, Alessandro Furnari, si è distinto quale pluricampione del Fantacalcio. Prenderanno molti voti ma il punto è che ormai a Taranto sono più depressi che arrabbiati, si vedrà qui che sarà l’astensione. «È un dato scientifico: la nostra provincia è quella con la più alta incidenza di stati depressivi della Puglia», dice Anna Maria Moschetti, pediatra e presidente della Commissione ambientale dell’Ordine dei medici di Taranto. E per forza, dice: ti alzi e vedi ciminiere, certi giorni bisogna tenere le finestre serrate e chiudono le scuole, la disoccupazione è quasi al 20 per cento, il turismo è morente, la sopraffina mitilicoltura idem perché il mare fa schifo, per un raggio di venti chilometri c’è divieto di pastorizia. Secondo Il Sole 24 Ore Taranto è la penultima città italiana per qualità della vita. «E poi ci sono i dati sanitari: l’incidenza dei tumori pediatrici qui è superiore del 54 per cento rispetto al resto della Regione», per dirne solo uno. Sono dati di cui si è scritto per anni.
Oggi Ilva ha 10-12 mila assunti. Negli anni d’oro erano 30 mila. Una fabbrica di voti, anche. Ma sarebbe fuorviante parlare solo di Ilva. L’inquinamento è una prodezza collegiale delle mille ciminiere di Taranto. E poi sentite qui: gli uomini vanno in fabbrica, e le mogli? Le mogli vanno al call center. A Taranto ci sono 7 mila dipendenti regolari di call center, quasi tutte donne. E non si sa quanti siano i call center abusivi. «In tre anni avrò sporto duecento denunce. Andiamo coi carabinieri, tiriamo su la saracinesca di un garage e dentro ci sono venti donne che vengono pagate un euro l’ora. Meglio di niente, dicono. Le troviamo nei sottoscala, nelle sale giochi, a centinaia», dice Andrea Lumino, 33 anni, sindacalista della Cgil. Lavorano in nero per tutte le maggiori aziende italiane, «l’altro giorno ne ho trovate che lavoravano per una grande azienda di telecomunicazioni a 40 euro lordi a contratto. Se non chiudevano neanche un contratto, compenso zero. Anche se avevano lavorato tutto il mese», dice Lumino.
Così si ricatta una città depressa, supina, a cui ormai frega poco anche di votare. Qui si lavora un po’ e si passeggia fra i due mari, e si aspetta che la depressione diradi un po’, dipende da come tira il vento. Da un paio di giorni tira di là, e i bambini del quartiere Tamburi sono scesi in strada a giocare a calcio. Tocca ai bambini di Statte, da un paio di giorni, restare chiusi in casa.