la Repubblica, 4 febbraio 2018
Elio Gioanola
Le nevrosi, le malattie, le timidezze, perfino il lungo senso di frustrazione universitaria, che gli ha reso la vita difficile, tutto questo Elio Gioanola lo ha trasferito sugli amati scrittori. È sceso come uno speleologo negli inferi, sfiorando a volte il magma incandescente della loro follia, per poi risalire alla superficie, nel suo mondo che oggi è quieto, attutito come quei tramonti che più della nostalgia sprigionano noia. Elio vive a Genova per alcuni mesi l’anno. L’estate se ne torna nella campagna del monferrino dove ritrova le sue radici. È un fautore del metodo psicoanalitico applicato alla letteratura. Quando ne parla a volte sembra che le sue parole indugino nell’aria, sospese tra il ricordo e l’amnesia: “Certe volte i nomi spariscono e poi dopo un po’ tornano di incanto. Faccio fatica, forse perché sono vecchio, forse perché una piccola ischemia ha rallentato le mie funzioni”.
È una condizione che non conosceva?
«È un modo per riformulare l’esistenza. Ho cominciato a non star bene nel 2009 con una minaccia di leucemia. Poi vari altri acciacchi e infine l’ischemia, non forte, ma tutt’altro che arrendevole. Improvvisamente non sono più stato io anche se ho continuato a scrivere».
Trovandoci cosa nella scrittura?
«Una forma di resistenza al decadimento. Ho da poco pubblicato un libro su Fenoglio e, del tutto legato alla mia passione calcistica, un libretto sull’Inter (entrambi editi da Jaca Book)».
Come le è venuto in mente?
«Osvaldo Soriano ci ha regalato pagine indimenticabili sul Boca Juniors perché non avrei dovuto fare lo stesso sull’Inter?».
Da leggere in chiave psicoanalitica?
«Una squadra molto traumatizzata negli ultimi anni. Ho misurato l’estensione e la profondità di certe passioni».
Quando ha scoperto l’importanza dell’inconscio?
«Dal tempo del liceo, mi sono abituato a pensare che la ragione non ha sempre ragione e che la vita si ribella a tutte le spiegazioni esteriori della vita. Ecco perché sono giunto alla convinzione che le emozioni non falsano la ragione. Da questo punto di vista, l’inconscio è un terreno fecondo per ogni esperienza letteraria che si rispetti».
A chi pensa?
«Per limitarmi al Novecento, facendo qualche nome: Kafka, Proust, Mann, Pirandello, Musil, Gadda o Montale appartengono a quella famiglia letteraria che non ha illuminato gli angoli dell’esistenza con la razionalità, non ha medicato il lutto della perdita di Dio riaffermando la centralità dell’uomo, ma ha cercato nei disagi della contemporaneità e nel proprio oscuro smarrimento le ragioni stesse dello scrivere».
Quindi la psicoanalisi è all’origine del suo lavoro critico?
«È lo strumento che ha chiarito il nesso tra male psichico e letteratura. La prima volta che mi è stato chiaro è quando ho letto Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij. Ricorda l’incipit? “Sono malato...Sono malvagio. Sono un uomo odioso. Credo di avere mal di fegato”. La malattia entra per la prima volta in maniera sfrontata non come fattore fisico ma come esperienza interiore, psicologica. Capace di condizionare l’intera esistenza».
Si sente anche lei partecipe di questo disagio?
«Non c’è attimo della mia vita che non abbia vissuto all’insegna del disagio. Credo di essere stato rare volte in sintonia con la cosiddetta realtà. Non sono mai, le confesso, diventato adulto. È come se fossi passato dall’infanzia direttamente alla vecchiaia».
«Non ho conosciuto quella fase della vita in cui si è propositivi, organizzati, pienamente inseriti nella vita sociale e lavorativa. Non mi sono mai adattato. Molti miei compagni di scuola hanno fatto i soldi con le fabbrichette di oreficeria, con i loro piccoli traffici, io non mi sono mai liberato del mio passato. Ancora adesso è lì a ricordarmi che sono rimasto un pescatore, un oste, un contadino».
Quali sono le sue origini?
«Sono nato a San Salvatore Monferrato. Origini contadine. Un mondo duro, chiuso ma solidale. Mio padre aveva un’osteria. Ci sono stato dentro fino a 20 anni. Lavoravo e studiavo. Liceo mediocre ad Alessandria. Compagno di scuola Umberto Eco, due classi avanti».
Che ricordo ne ha?
«Già allora si era rivelato per quel che era: brillante e intelligentissimo ma anche capace di piantarti dei discorsi tremendi. Aveva una vera passione per il teatro. Finito il liceo io andai a studiare alla Cattolica di Milano, lui a Torino. So che per anni, è tornato al teatrino di Alessandria, dai suoi amati frati, per recitare il “Gelindo”. In fondo eravamo rimasti dei provinciali». Eco prese la strada della semiotica lei quella della psicoanalisi. Si è mai pentito? «Non avendo avuto amori felici, quello mi è sembrato il solo all’altezza».
All’altezza di cosa?
«Diciamo delle mie insicurezze. Sono stato un timido patologico. Nato con la paura di vivere che è la stessa cosa della paura di morire. Ho avuto timore di tutto: delle maschere di carnevale e dei fuochi di artificio, degli insegnanti e dei carabinieri, dei temporali e della siccità, dei dottori e dei preti; del troppo freddo e del troppo caldo. Da adulto mi è sempre mancato il coraggio di espormi. Avevo il terrore di prendere la parola in pubblico. A 40 anni, quando per la prima volta mi feci coraggio, parlai con voce rotta e il cuore in gola a un convegno letterario».
Ha compreso l’origine di questa paura?
«Credo che c’entri mia madre. L’impossibilità di tagliare il cordone ombelicale. Si era adattata al suo ruolo di sposa. Ma con il desiderio di reagire al piccolo mondo nel quale era confinata».
Cioè?
«Non c’era ancora la guerra e ricordo che spesso si danzava nei locali e nelle osterie. Soprattutto il sabato sera. La mamma accettava di ballare con i clienti del locale. Quelle sere le passavo vicino al fonografo a manovella cambiando i dischi. Poi vinto dal sonno venivo portato a letto al piano superiore. Capitava che mi svegliassi con angoscia e urlavo disperato. Mai come in quei momenti sentivo la distanza incolmabile da quella donna».
Quando è finito tutto questo?
«Nel momento in cui il conflitto esplose. Entrai in prima elementare mentre mio padre quarantenne fu richiamato alle armi. Tutto si acquietò. Per due anni siamo stati senza il capofamiglia. Poi arrivarono i tedeschi, la guerra partigiana e infine la liberazione con gli americani che portarono una parvenza di abbondanza. Mio padre era tornato. La mia mente disegnava progetti di fuga. Poi cominciarono i mal di testa della mamma. Frequenti, accaniti, dolorosi. A volte doveva ricorrere alla morfina. Mi sentivo nuovamente in trappola. Legato a lei, mani e piedi. Fu questo il periodo in cui mi innamorai di una ragazza. Si chiamava Bianca».
Cosa accadde?
«Patii lungamente questo coinvolgimento. Sette lunghi anni di attesa per poi alla fine scoprire che a Bianca piacevano le donne. Il sogno si frantumò di colpo. Non mi ripresi fino a quando non vidi la nipote del parroco: Paola. Ci sposammo. All’inizio fummo felici. Poi si scatenò in lei una gelosia insensata. Bruciò tutte le mie lettere. Divenne irascibile, aggressiva. Infine assente, quando fu colta da demenza senile».
Sembra quasi che i guai la vengano a cercare.
«Forse c’è qualche predisposizione: un amore fallito per impossibilità e un altro fallito per conclamata malattia. Le quattro figlie mi hanno salvato. E la psicoanalisi è stata un buon modo per tenere a bada le mie angosce». Riuscendo a trasferire le sue nevrosi su quelle degli scrittori. Come è avvenuto questo passaggio? «All’inizio occupandomi di Cesare Pavese, nevrotico con manie suicide. Ho cominciato rovesciando il cliché dello scrittore neorealista. Mi affascinava la sua apertura al mito e all’infanzia, tanto da giustificare le mie inclinazioni all’“irrazionalismo”. Mi sembrava che Santo Stefano Belbo o Alba nella sua scrittura divenissero luoghi magici. Cominciai così a vedere gli scrittori e i poeti sotto una luce diversa».
Qualche nome?
«Eugenio Montale e Giorgio Caproni. Ma per fare un passo indietro Federigo Tozzi e Alessandro Manzoni preda dei ripetuti svenimenti. Pirandello che ha sfiorato la follia; Gadda che è stato il sovrano delle nevrosi. Per non parlare di Dostoevskij e Kafka condannati a un rapporto conflittuale e irrisolto con il padre». Nella galleria dei nevrotici ha recentemente aggiunto Fenoglio cui ha dedicato un intero libro (edito da Jaca Book). Cosa aveva di strano? «Si vedeva come l’uomo più brutto del mondo. La sua balbuzie era insieme causa e conseguenza del disagio che lo scrittore provava nei riguardi degli altri. Il fatto che egli avesse trasformato l’inglese nella sua lingua di elezione era anche un modo per compensare certi deficit verbali».
Non è molto riduttiva la sua analisi?
«Sto solo dicendo che il disagio e la malattia, sono tra i motori principali per spiegare l’imprevedibile genialità di alcuni scrittori. Ma non è vero il contrario, cioè che tutti coloro che sono affetti da qualche patologia della mente sono artisti». In fondo lei non è il solo ad aver privilegiato in letteratura lo strumento della psicoanalisi. Qualcosa di simile, ma con meno ossessione, hanno tentato Francesco Orlando e Mario Lavagetto, e perfino Cesare Garboli con Pascoli. Come ha reagito la critica e l’accademia alle sue posizioni? «I miei libri su Svevo, Gadda, Pirandello furono accolti nel più assoluto silenzio dalla critica. Gli unici entusiasti erano i miei tanti studenti, attratti dalla propensione ad andare oltre le interpretazioni puramente estetiche dei testi. Da parte dell’accademia ci fu solo gelo e disprezzo. Un noto critico marxista, l’italianista Giuseppe Petronio, mi diede dello psicopatico invitandomi a sottopormi a cure psicoanalitiche che così maldestramente applicavo alle opere degli scrittori».
Tutti schierati contro di lei?
«Non tutti, con alcuni, come Sebastiano Timpanaro, ho polemizzato ma con grande civiltà di argomenti. Di altri, come Edoardo Sanguineti, divenni amico. Ma l’università, parlo di Genova dove ho insegnato per trent’anni, così monocraticamente ottusa mi ha emarginato ed escluso da tutto. Non ho rimpianti, ma il fatto che io non sia diventato ordinario la dice lunga sul comportamento familistico di certe istituzioni. Le confesso che andare in pensione è stato togliermi un peso, tanto penosi sono stati gli ultimi anni di insegnamento».
Cosa si rimprovera?
«A volte ho creduto di aver sbagliato mestiere. Ma poi la stima degli allievi, i riconoscimenti ottenuti in altre sedi, gli scritti critici che ho pubblicato mi hanno convinto che non avevo sbagliato mestiere ma solo la sede in cui l’ho esercitato. All’università entrai per caso. Dopo 15 anni di insegnamento al liceo, pensai ingenuamente che fosse matura la scelta per un magistero più alto e più libero. Mi sbagliavo. Fui accolto con diffidenza e gelo. Da subito venni considerato un corpo estraneo. Un outsider. Un paria da commiserare, deridere o disprezzare».
Non mi ha risposto.
«Allora dovrebbe chiedermi chi sono stato e chi sono. Non sono stato quello che avrei potuto essere. Ma forse mi illudo. Forse non avevo le risorse intellettuali sufficienti per diventare il critico e lo scrittore che sognavo. E tutto quello che ho fatto può essere letto come alibi e giustificazione per un fallimento annunciato».
Pensa di aver fallito?
«Onestamente non lo so. Sono nato e cresciuto in un’osteria e in un paese di campagna senza libri e senza stimoli, ho avuto insegnanti mediocri e ho dovuto farmi strada da solo non sapendo bene dove andare a parare. Mi ha salvato la scontentezza di quel tutto che mi portavo dentro da sempre e che si è man mano precisata come ansia religiosa, odio per ogni forma di retorica, sensibilità per il male di vivere. In fondo anche per me malumori, malinconie, malattie sono stati uno stimolo per rompere le costrizioni ambientali e culturali in cui per lungo tempo ho vissuto».
Ha l’aria di una confessione.
«È la sincerità del vecchio che non ha più nulla da nascondere».
Con qualche rimpianto?
«Mi trovo oggi, in tarda età, a raccogliere consensi mai avuti in precedenza. Ma questo cosa cambia? So di essere portato all’autodenigrazione. Ma so anche di non essere diventato lo scrittore sognato nell’adolescenza. Non si diventa ciò che non si è stati all’origine. Dopo i sessant’anni ho scritto una serie di romanzi di nessun successo. Non me ne dolgo perché il lavoro narrativo per me è stato un divertimento. E non lo rimpiango perché se uno il talento non ce l’ha, non se lo può dare».