la Repubblica, 4 febbraio 2018
50 sfumature di 68
Troppa libertà? È, in estrema sintesi, la domanda che innerva la discussione su ciò che chiamiamo Sessantotto. Sottende, la domanda, il più malizioso dei sospetti: che lo scardinamento del principio di autorità e la liberazione delle pulsioni individuali trovarono poi esaudimento non in una nuova socialità (di “sinistra”), ma nell’individualismo e nel consumismo (di “destra”). Come tutte le domande importanti, è bene porsela. A patto che sia bene inquadrata, la domanda, non dentro questa Italia, ma dentro quella. Un Paese e una società oggi quasi impensabili, tanto rapidi e radicali sono stati i mutamenti nella mentalità diffusa, nei costumi, nelle relazioni sentimentali e sessuali.
Non sono passati, da questo punto di vista, cinquant’anni: ma cento e forse mille. È necessario ricordarlo specialmente ai ragazzi di oggi, nativi di un Mondo Nuovo nel quale la libertà personale – specie quella sessuale – è una condizione quasi scontata, non urta poteri e non infrange tabù. Ma la memoria di quegli anni giova anche a noi ragazzi di ieri, magari dimentichi di certi percorsi impervi e dolorosi, di certe ribellioni che per ottenere dignità diedero enorme scandalo, ebbero prezzi umani alti, patirono lo stigma feroce e quasi unanime di un’Italia ormai dimenticata. Per capire “il Sessantotto” bisogna prima capire in quali case, quali scuole, quali fabbriche, quali caserme, quali tribunali quel virus poté attecchire in modo così fulminante, epidemico.
Giovanni Sanfratello aveva ventitré anni e apparteneva ( è il verbo giusto) a una famiglia molto in vista e molto bigotta della borghesia piacentina. Aveva una relazione con il professor Aldo Braibanti, poeta e drammaturgo, comunista, omosessuale, e decise di seguirlo a Roma. Era l’inizio del 1965. Una pattuglia di polizia, accompagnata e in qualche maniera “guidata” dal padre di Giovanni, fece irruzione nell’appartamento romano dove la coppia conviveva, consegnò al suo compagno, più anziano di vent’anni, una denuncia per “plagio”, e portò via il ragazzo. Lo rinchiusero in manicomio per più di un anno, fu sottoposto a elettrochoc per “guarire”. La famiglia ( in sintonia con la società dell’epoca quasi per intero) considerava l’omosessualità una vergognosa malattia, e il professor Braibanti un depravato che aveva corrotto il ragazzo, riempiendogli la testa di idee sovversive e corrompendolo sessualmente: andava punito per legge. Giovanni venne dimesso dalla clinica psichiatrica con “l’obbligo di risiedere nella casa dei genitori” e dietro il solenne impegno a leggere “solo libri scritti almeno cento anni prima”, dettaglio esilarante che rimanda al terrore anti- modernista che ancora permeava l’Italietta clericale.
Braibanti era un uomo mite, colto, intelligente, ma quasi tutti i giornali dell’epoca lo dipinsero come un mostro scellerato, corruttore della gioventù. Agli occhi di molti italiani dell’epoca incarnava una doppia sovversione: politica e sessuale. Venne processato nel 1968 con l’imputazione di “plagio” ( reato in seguito cancellato dai codici). La “parte lesa”, il suo ex compagno Giovanni Sanfratello, volle scagionarlo dicendosi del tutto consenziente, ma la sua parola non servì a nulla: Braibanti venne condannato a nove anni di prigione. Inutili gli appelli degli intellettuali, guidati da Moravia e Pasolini.
Molto blanda la difesa che il Partito comunista fece di una così evidente vittima del pregiudizio e del sopruso. In un’Italia siffatta, la difesa dei diritti di un omosessuale era ancora una causa sconveniente. Così l’italiano Aldo Braibanti, innocente, finì in prigione “con i suoi libretti”, come scrisse con divertito spregio un columnist del settimanale fascista Il Borghese.
L’Italia che odiò Braibanti era la stessa che agli inizi del decennio, nel 1960, aveva accolto a insulti e sputi Federico Fellini alla prima milanese della Dolce vita, al cinema Capitol. Il film era accusato di “istigazione al suicidio” e “blasfemia” dall’opinione cattolica più retrograda e ottusa. Venne salvato dalla censura solo ( pare) per l’intercessione di un potente democristiano che temeva la grande popolarità di Fellini e del cinema, allora di gran lunga il medium più acclamato e frequentato.
Franca Viola, diciassette anni, siciliana di Alcamo, figlia di contadini, venne rapita nel Natale ’65 da un giovane di mafia accompagnato da uno stuolo di compari. Il giovane la violenta e la tiene segregata per dieci giorni in un casale. Pretende di sposarla, conta sull’applicazione dell’articolo 544 del codice penale ( che verrà abolito solo nel 1981): “il matrimonio che l’autore del reato contragga con la persona offesa estingue il reato stesso”. Se “segni” una femmina, poi quella femmina è tua per diritto. È la pratica del “matrimonio riparatore”, ancora molto diffusa nella Sicilia di quegli anni. Ma la ragazza Franca si ribella al suo predatore. Dice che sposerà chi vuole, e quando lo vorrà. A sorpresa, il padre contadino si schiera con la figlia.
Oggi sembrerebbe un lampante episodio di stupro, ma nell’Italia di allora l’interpretazione dei fatti non fu affatto univoca. Anzi. La discussione fu molto accesa. Il fronte “tradizionalista” fece sentire forte la sua voce: Franca doveva chinare la testa e sposare l’uomo che l’aveva posseduta, oppure ne sarebbe uscita “svergognata”. Intuivano, quei signori, quale tremenda rivoluzione era alle porte: la donna che decide per sé. Franca Viola vinse la sua battaglia. Il rapitore fu condannato a dieci anni, ma gli vennero riconosciute le “attenuanti ambientali”, ovvero il fatto di avere agito in un contesto in cui “rapire” la donna per poi sposarla era una pratica lecita. L’8 marzo del 2014 Franca Viola ha ricevuto dal presidente della Repubblica, Gorgio Napolitano, il titolo di Grande Ufficiale della Repubblica Italiana. Il reato di violenza sessuale è stato promosso a “reato contro la persona” solo nel 1996. Fino a quell’anno, i nostri codici lo consideravano solo un reato “contro la morale”. Nel febbraio del 1966 un gruppo di genitori cattolici del liceo classico Parini, nel centro di Milano, denuncia per “oscenità a mezzo stampa” il giornalino scolastico La Zanzara. Che cosa avevano pubblicato, di così osceno, gli studenti Marco Sassano, Marco De Poli, Claudia Beltramo? Una inchiesta sulle opinioni degli studenti in materia di sentimenti e di rapporti familiari. Si parlava di relazioni prematrimoniali e di educazione sessuale. Di lì a pochissimi anni diventeranno argomenti correnti anche su Famiglia Cristiana, nelle parrocchie, nei corsi di preparazione per i giovani sposi. Ma in quell’Italia (e in quella Milano) ci fu materia per trascinare tre liceali prima in questura, dove furono invitati a spogliarsi “per verificare eventuali tare fisiche e psicologiche”, come previsto dal codice Rocco; poi in tribunale, dove vennero assolti di fronte a più di quattrocento giornalisti, molti dei quali venuti dall’estero. Il caso ebbe un clamore enorme, spaccò in due la politica italiana e soprattutto il mondo cattolico, la cui parte progressista si schierò con i ragazzi. Mancavano meno di due anni ai grandi cortei del Sessantotto. Nei primissimi, gli studenti sono ancora vestiti come gli adulti: giacca, cravatta, occhiali con enormi montature, capelli corti. Pochi mesi dopo, capelli e vestiti svolazzano, indisciplinati, ingovernabili. Sappiamo tutti che quel decennio fu anche di travolgente dinamicità e vivacità. Anni di rinnovamento, di progresso sociale e politico in tutto l’Occidente. Ma a quelle pulsioni di libertà, a quel progresso, a quel rinnovamento, capitò di convivere con blocchi micidiali di conservatorismo e di autoritarismo (che non è autorevolezza). La mentalità italiana era, nei costumi, nelle gerarchie familiari, perfino nella sua declinazione legale, quanto di più ostile alle nuove libertà. O forse, rovesciando il discorso: da una così potente e perdurante mortificazione non poteva che scaturire, per contrappasso, una travolgente ribellione.
Non sono i comunicati dei vari partitini dell’ultrasinistra, parodie dei partitoni della sinistra classica, a formare il mio ricordo profondo dell’anno 1968. Sono semmai, al liceo Manzoni di Milano, le timorate professoresse che raccomandavano alle mie compagne di classe di non indossare i pantaloni (molto sconsigliati) e di raccogliere i capelli, perché i capelli sciolti sono scostumati (vedi quanto di islamico abitava in mezzo a noi anche prima dell’Islam). Fu l’apertura del consultorio Aied in via Castelbarco, dove le mie compagne di scuola, con i capelli raccolti e non, prendevano coscienza della contraccezione, a segnare in via definitiva l’arrivo della rivoluzione.