la Repubblica, 3 febbraio 2018
Tino Sehgal: «Così libero l’arte dalla dittatura degli oggetti»
TORINO C’è un artista che nell’era digitale si muove in direzione ostinata e contraria. Quello che l’ex studente di economia (Humboldt University) e di danza Tino Sehgal realizza sono situazioni costruite usando i mezzi nati con l’uomo: la voce e il movimento. Non chiamatele “performance” e nemmeno coreografie. Si tratta di esperienze da vivere e basta.
L’artista non documenta o lascia nulla. Chi si azzarda a pubblicare foto o video pirata delle sue “opere” viene definito quanto meno una «persona scortese». Non tiene nemmeno appunti, Sehgal. Nelle sale dei musei piene di oggetti, propone percorsi immateriali che vuole siano ricordati solo da chi li attraversa: i performer scelti e il pubblico, che è chiamato a interagire. Che sia il Guggenheim di New York, il Palais de Tokyo di Parigi, la Tate Modern di Londra, o la Biennale di Venezia, dove ha vinto il Leone d’oro nel 2013, è lo stesso.
C’è chi si commuove, chi viene rapito dal canto, chi si ritrova nel mezzo di un rito misterioso e inaspettato. Accade ora alle Officine Grandi Riparazioni di Torino, che dedicano all’ex enfant prodige del contemporaneo – è nato a Londra nel 1976 da padre pachistano e madre tedesca, vive a Berlino – la prima “mostra” personale italiana fino al 17 marzo (a cura di Luca Cerizza). Qui cinquanta persone mettono in scena una serie di movimenti e canti che riassumono tutta l’opera dell’artista. Entrano ed escono dallo spazio, circondano gli spettatori, gli uni danno il ritmo all’altro, c’è chi sussurra un particolare drammatico della sua vita a un visitatore scelto a caso. Chi si bacia mimando le sculture di Rodin. Si inneggia beffardamente alla società tecnologica e all’elettricità. Le luci si spengono e si accendono.
Il “rito” si ripete, con le sue variazioni, dalle 11 alle sette di sera. «Lo script, se c’è, è un mistero anche per me», dice il direttore artistico delle Ogr Nicola Ricciardi. «Ma io non scrivo perché sono pigro e poi, se devi mettere nero su bianco un’idea per ricordarla, allora non si tratta di una grande idea», ribatte sorridendo Sehgal, mentre addenta cibo vegetariano. Non ama le email, gli aerei e le interviste – ne concede una ogni tre anni solo al re dei curatori Hans Ulrich Obrist – ma accetta di fare “conversazione” seduti al bar. «È curioso come cambi il modo di sentire dell’umanità – spiega – per gli antichi le idee erano più forti di qualsiasi cosa. Erano inattaccabili. Platone detestava scrivere. Oggi le idee devono diventare necessariamente materia: siamo pieni di oggetti.
Io faccio a meno di crearne altri».
Le idee sono indistruttibili e le opere d’arte materiali no.Intende questo?
«Pensi alla Resistenza, durante la seconda guerra mondiale. I partigiani non avevano bisogno di scrivere, o di creare oggetti. Ma avevano idee e immaginazione con cui hanno vinto. Non oso paragonarmi a loro, per carità, ma le mie opere sono come algoritmi che si adattano agli spazi e alle situazioni. Non ho bisogno di scrivere».
Ha studiato economia e ha raccontato di aver capito, ascoltando un ministro, che si può fare meglio politica facendo cultura...
«Sì, da ragazzo pensavo questo. I politici amministrano, più che fare politica. Non incidono davvero sulla realtà. Sorvegliano i valori da rispettare. E, invece, radunare le persone, coinvolgerle, farle interagire in un museo o in uno spazio pubblico è un atto politico. L’arte è politica».
I musei sono anche l’affermazione di un potere.
Aprire un museo significa sancire uno status di potenza.Adesso accade sempre più ad Oriente.
«L’Oriente è interessato agli aspetti della democrazia liberale. È per questo che in Cina o ad Abu Dhabi nascono nuovi musei. Non accade in Nord Corea, però, dove si organizzano solo parate. I musei fanno parte di un processo di democratizzazione. Davanti a una teca con un’opera d’arte siamo tutti uguali, re e operai».
Non ha paura per il futuro delle sue opere, che sono tutte immateriali? Non ha mai pensato di fondare un’istituzione per tramandarle?
«Non ci ho mai pensato, ma mi piacerebbe. Sarebbe necessario trovare fondi per istituirla».
Ha venduto alcune opere, però. Quante? Anche qui senza contratto scritto?
«Credo di averne vendute trenta, più o meno, soprattutto ai musei.
Non c’è molto mercato ( ride). I musei le ottengono per sempre: è un pessimo affare. Anche nelle vendite non c’è nulla di scritto, ma viene stipulato un contratto orale davanti a un notaio. È perfettamente legale. È come al ristorante: non è scritto da nessuna parte, ma per convenzione, alla fine del pasto, si paga un conto. Il contrario sarebbe un problema».
Per lasciare le sue opere ai musei, dovrà pur scrivere delle notazioni su come farle eseguire.
«Il coreografo George Balanchine non lasciò nulla di scritto. Oggi una nuova generazione di ballerini, che non ha mai danzato con lui, esegue le sue idee alla perfezione. Ecco, io vorrei fare lo stesso: basta che qualcuno interiorizzi l’algoritmo delle mie opere. Platone perseguiva un canale intimo di trasmissione della conoscenza. È questo che mi interessa. Per questo la scelta delle persone che lavorano con me è molto importante. Con alcuni, che hanno iniziato giovanissimi, non c’è nemmeno più bisogno di parlare».
Non sembra per niente interessato al progresso tecnologico. In tutte le sue opere, anche i suoni sono emessi esclusivamente dall’uomo, quasi fosse uno strumento musicale.
«Il vero progresso sono le idee che decidiamo di trasmettere alle generazioni successive. La tecnologia non conta. Associare il progresso ai nuovi mezzi che nascono è alquanto riduttivo».
Ogni artista vuole passare alla storia con le sue opere. Per lei è lo stesso? Non teme che tutto quello che ha fatto possa sparire?
«Qualcuno ricorda i nomi di tutti i presidenti americani vissuti un secolo fa? O di un qualsiasi politico olandese di cinquant’anni fa? Certo che no. E invece tutti ricordiamo i maestri che c’erano nel Rinascimento e quelli degli anni Sessanta del Novecento. I nomi di alcuni movimenti artistici sono immediatamente associabili ai periodi storici.
Noi artisti viviamo una strana condizione: ora, apparentemente, non abbiamo molto potere. Ma in futuro ne avremo molto di più».