la Repubblica, 3 febbraio 2018
Cari vecchi pegni per le banche funzionano ancora
MILANO Dal pegno d’amore a quello per denaro il passo può essere brevissimo. Gioielli, collane, orologi e fedi nuziali all’asta del credito su pegno passano da inalienabili ricordi di famiglia a soldi contanti, preda dei rilanci per alzata di mano dei partecipanti: «Duecento», «Duecentocinquanta», «Quattrocento». All’incanto, anche gli affetti hanno un valore: 25 euro per ogni grammo di oro. I beni si comprano a questa cifra, non di più. È una storia vecchia di 600 anni quella del credito su pegno. Oggi, sei secoli dopo, cambiano gli attori, gli strumenti, il giro d’affari, ma non il principio di fondo. Si affidano a una banca i propri gioielli come garanzia di un prestito a breve termine.
Alla scadenza, si ripaga il finanziamento con gli interessi e il bene torna in mano al proprietario. Se invece il possessore non riesce a ripagare quanto ricevuto, l’istituto si tiene il bene e lo mette all’asta al migliore offerente.
Il settore è relativamente piccolo se si guarda all’intero mondo del credito: circa 850 milioni tra prestiti nuovi e rinnovi nel 2016 secondo i dati forniti da Assopegno. Quasi tutte le principali banche però ancora oggi hanno ancora attivo un servizio di questo tipo. La più grande, Unicredit, a fine 2017 ne è uscita cedendo all’austriaca Dorotheum tutte le attività per 141 milioni di euro, compresa quella del Monte di Pietà di Roma, dove il pegno è una realtà consolidata dal 1539. Tra i più attivi ancora in campo c’è il Credito Siciliano (gruppo Creval), 10 filiali lungo il territorio, che nel 2016 vantava 61,3 milioni di euro di impieghi, in crescita rispetto ai 59,4 del 2015. In scia anche Ubi, 9 filiali dedicate oltre alle 3 appena rilevate dall’ex Banca Marche, e un totale di 32 milioni di impieghi a fine 2017.
Per il cliente, l’approccio è radicalmente diverso dai compro oro. «Si tratta di uno strumento per chi ha bisogno di liquidità temporanea ed è fortemente convinto di riscattare il proprio bene», spiega l’avvocato Pierluigi Oliva, segretario di Assopegno. «In media gli importi dei finanziamenti concessi si attestano intorno ai mille euro». E i beni finiti all’asta? «Il 95% dei prestiti vengono riscattati, solo il 5% finisce all’incanto», assicura Oliva. Numeri simili a quelli che registra Ubi, secondo cui solo il 4,5% dei prestiti – fa sapere la banca – non viene ripagato.
Tempi e relativa facilità del finanziamento però hanno un costo. Cifre considerevoli nell’era del denaro facile della Bce. Dal 16,71% che chiede Unicredit, al 18,54% del Credito Siciliano, fino al 12,04% di Ubi, se si confrontano i vari Taeg, i tassi sulla liquidità concessa che includono anche tutte le spese accessorie. «Bisogna considerare che per le banche ci sono dei costi, come la custodia del bene, che incidono in modo rilevante quando l’importo dei prestiti è basso», sottolinea ancora Oliva. Per giganti come Unicredit che lasciano la scena, altri più piccoli hanno invece scelto la strada inversa. Da metà 2017 Banca Sistema, istituto nato nel 2011 specializzato nell’acquisto di crediti commerciali, ha attivato due filiali dedicate ai prestiti su pegno. Il bilancio iniziale è positivo, 2 milioni di impieghi in pochi mesi di attività: «Siamo partiti da una considerazione semplice: è un settore in cui l’ultima innovazione risale al 1400», spiega l’amministratore delegato Gianluca Garbi. Così l’antico strumento del pegno si sposa con i nuovi mezzi del web: «Abbiamo lanciato la app Prontopegno, con cui è possibile richiedere una perizia e ottenere una valutazione preliminare on-line». Un’arma per vincere pudore e imbarazzo che ancora, secondo Garbi, mettono il freno a questo settore.