la Repubblica, 3 febbraio 2018
Musica senza confini è la lingua universale
ROMA La musica è una lingua universale. Il suo messaggio è riconoscibile da tutti nel mondo. L’idea, espressa nel tempo da molti poeti, lascia in realtà perplessi gli antropologi e in passato è stata accusata di avere venature razziste. Scevri dai preconcetti, alcuni psicologi di Harvard hanno deciso di controllare l’ipotesi con un esperimento. Un canadese, ascoltando una melodia Zulu, riuscirebbe a distinguere se si tratta di ninna nanna o canzone d’amore? E un indiano, messo di fronte alle note tradizionali degli Inuit, distinguerebbe il messaggio di un brano eseguito per curare un malato da quello di una canzone per ballare?
Partendo dal catalogo “The Natural History of Song” messo insieme proprio da Harvard, i ricercatori hanno sottoposto 118 melodie da 14 secondi ciascuna a 750 utenti di internet sparsi nel mondo. I brani appartenevano a tribù semi-primitive o piccole etnie di pastori, raccoglitori o agricoltori di sussistenza. Le parole erano pronunciate in lingue sconosciute agli utenti del web che hanno partecipato all’esperimento, in modo che l’unico messaggio trasmesso fosse quello delle note. E alla fine gli ascoltatori dovevano stabilire se quella che avevano ascoltato fosse una canzone d’amore, fatta per danzare, per addormentare un bambino o per agevolare la guarigione di un malato. Fra le opzioni ne erano inserite due fittizie (piangere i morti o raccontare una storia) giusto per evitare che i volontari rispondessero andando per esclusione.
Dopo 26mila ascolti in 60 paesi del mondo, pochi hanno avuto difficoltà a riconoscere una melodia scritta per danzare o per cullare un bambino. Ben comprensibile è stato anche il messaggio delle musiche per curare i malati. Le più difficili da individuare, a sorpresa, sono state le canzoni d’amore. E nessuno, fra gli autori dell’esperimento pubblicato su Current Biology, è riuscito a spiegare davvero perché.
«Forse perché danzare e addormentare un bambino sono gesti comuni a tutti nel mondo, mentre le relazioni fra persone sono costruite su modelli di comportamento particolari» suggerisce Luca Aversano, che insegna musicologia e storia della musica al Dams dell’università di Roma Tre. E che conferma: «L’esistenza dei cosiddetti “universali della musica” è un tema molto dibattuto. Se ne è occupata la filosofia antica come la psicologia moderna». Gli stessi autori di Harvard, prima di dare il la all’ascolto dei brani online, hanno voluto effettuare un sondaggio tra i colleghi. Fra i ricercatori che si occupano di scienze cognitive, 4 su 5 credono agli “universali”. Fra gli etnomusicologi, solo 1 su 4 è convinto che il messaggio di un brano sia uguale ovunque. I risultati del gruppo di Harvard (in maggioranza psicologi) sembrano confermare l’idea della musica come idioma senza confini. «Nonostante la stupefacente varietà delle forme musicali, la nostra comune natura umana riesce a leggerne le strutture fondamentali» spiega il coordinatore dello studio, Samuel Mehr.
Per Aversano, la verità sta probabilmente a metà. «Da una parte c’è chi sostiene che le funzioni della musica siano universali, e chiunque all’ascolto proverà reazioni molto simili.
Dall’altro chi è convinto che un giapponese non possa apprezzare una canzone napoletana e viceversa. Io credo che la fisica del suono e le reazioni della corteccia siano uguali per tutti, ma che rischiamo di cadere nella banalità se non riconosciamo che esistono caratteri unici, come la modalità di esecuzione, che invece sono legati alla cultura.
Una parola sgradevole può essere detta in maniera dolce, così come può avvenire il contrario. Ma stabilire dove finisca il significato universale e dove inizi il contesto culturale è un problema enorme. Direi che è il mistero più profondo del nostro animo musicale».