la Repubblica, 3 febbraio 2018
Dalla Scozia a Kyoto senza mai un aereo. «Il mondo si capisce solo andando lenti»
C’è un punto in cui l’Europa finisce e l’Asia comincia. E uno dove cambiano le religioni, la cultura, le identità, il modo di pensare. Nessuno sa dove sia, pochi riusciranno a scoprirlo. Anche perché quando viaggi da una parte all’altra del mondo quel punto lo superi a bordo di un jet, a più di diecimila metri di altezza, magari mentre sorseggi una coca o guardi distrattamente un film. Luca Sciortino, 48 anni, siciliano, giornalista e scrittore, quel punto ha voluto andare a scoprirlo. E per farlo ha deciso di fare un viaggio di più di diecimila chilometri, dall’isola di Skye in Scozia ai templi di Kyoto, in Giappone. Con un’unica regola: niente aerei. E, possibilmente, anche pochi treni. Perché per conoscere davvero il mondo e chi lo abita bisogna muoversi a piedi, oppure chiedendo un passaggio ai camionisti o prendendo bus arrugginiti che spesso non ti lasciano dove volevi arrivare. Magari dovrai dormire nelle case dei nomadi o nel cuore della steppa, mangiare il cibo della povera gente, farti consigliare percorsi alternativi, costruire un itinerario giorno per giorno: «E poi voltarti indietro – spiega Sciortino – scoprire la tua traiettoria e, come mi ha detto un monaco buddista, ritrovare finalmente te stesso».
L’incredibile viaggio di Luca, cominciato senza un perché una mattina di luglio da una cittadina delle Ebridi guardando «una barca a vela che fendeva le onde increspate oscillando su e giù tra voli di gabbiani», è diventato adesso un libro, Oltre e un cielo in più, pubblicato da Sperling & Kupfer. «Avevo un bel lavoro e tanti interessi, eppure qualcosa non andava. Di fronte a una quotidianità svuotata si è fatto strada in me il desiderio di lasciare tutto e andare. Senza tappe predefinite, solo per il gusto di viaggiare. Con un solo bagaglio leggero, la mia macchina fotografica e un cellulare con caricabatteria solare».
E così, i tetti dorati di Budapest lasciano il posto all’Ucraina ferita dalla guerra, la sconfinata pianura russa, il gelo della Siberia e, finalmente, le montagne del Tien Shan, la porta d’ingresso della Cina, dove i cacciatori si affidano ancora alle aquile: «Avevo una meta, il Giappone. E una cartina con un percorso che ho modificato decine di volte. Perché magari incontravo un pastore che mi indicava una scorciatoia o un posto che avrei fatto bene a vedere. Il viaggio è diventato quasi una metafora della vita: ho dormito sui treni sopra lo zaino per paura di essere derubato, ho visto la taiga trasformarsi in deserto. Ho sofferto e qualche volta ho anche pensato di mollare tutto. Per fortuna ho trovato nelle persone che incontravo la forza di andare avanti. In Kazakistan, per esempio, mi ero perso nella notte: all’improvviso un’auto mi punta i fari addosso, ho avuto paura. Invece era un uomo che voleva semplicemente aiutarmi. Ricordo ancora la sua frase: “Io sono musulmano, tu cristiano, noi siamo fratelli”. Ecco, quell’emozione non la dimenticherò mai».
Sciortino ripercorre tutte le tappe e gli incontri che gli sono rimasti nel cuore: «Da giornalista sono entrato a Calais al campo profughi. Era ormai molto tardi e per tornare in città avevo bisogno di un taxi. Ma il mio cellulare era completamente scarico e un poliziotto a cui avevo chiesto aiuto mi aveva pure maltrattato. Amir, un sudanese scappato dalla guerra, non solo mi fece usare il suo telefono ma rifiutò anche il denaro che volevo dargli. Una lezione di vita».
Alla fine Luca visita anche le grandi metropoli, da Pechino a Shanghai fino a Kyoto, la meta finale: «Ma anche qui ho cercato di scoprire quello che i turisti non vedranno mai, le periferie, il modo di vivere, persino le nevrosi di chi le abita. Adesso mi sento molto più ricco, anche se è stata una faticaccia. E già penso alla prossima avventura, l’America Latina, dal Venezuela a Ushuaia, in Argentina, la fine del mondo prima dell’Antartide. Senza aerei, ovvio, altrimenti che viaggio sarebbe?».