Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  febbraio 03 Sabato calendario

«Toglieteci i figli o saranno mafiosi». La scelta d’amore di venti mamme

Roma Sono tua madre e per il tuo bene ti dico di stare lontano da me. Rinnega il padre e anche la madre. Rinnega la mafia che ha nutrito i tuoi genitori. Vai via, vai lontano. Ti abbandono e lo faccio per te. Un giorno ci rivedremo e capirai. Forse.
Chissà quali corde altissime dell’animo umano arriva a toccare la scelta meditata di una madre che va da un giudice a chiedere di toglierle il figlio. Di separarlo dalla famiglia mafiosa dove è nato. Di allontanarlo dal paese in cui sta crescendo male. E di trovare per lui un’altra mamma e un altro papà, almeno fino a quando non sarà maggiorenne.
Venti donne l’hanno fatto. Venti mamme hanno trovato il coraggio. Sono mogli di mafiosi, figlie di mafiosi, sorelle di mafiosi, nipoti di mafiosi. In alcuni casi mafiose anch’esse, condannate per il 416 bis e in attesa della sentenza definitiva. Un giorno sono andate dal presidente del tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella, e gliel’hanno detto, con le parole più semplici che avevano. Signor giudice sono pronta, prendetevi mio figlio. Salvatelo.
Le loro voci, che Repubblica ha raccolto grazie all’associazione antimafia Libera, sono necessariamente senza volto. Quello che portano è cognome di clan, ossia il macigno precipitato sul futuro. Per come è fatta la legge, non riescono a toglierselo di dosso perché non sono collaboratrici né testimoni di giustizia quindi non hanno diritto a un’identità protetta. Lo stesso vale per la prole che chiedono allo Stato di portare altrove.
Ecco Paola, 35 anni. «Mio padre era stato ucciso dalla mafia, lo stesso mio fratello e i miei zii. Tre anni fa guardavo i miei due figli di 15 e 12 anni: il grande andava su Internet per cercare informazioni sul nostro clan, aveva il mito dello zio ergastolano e si era convinto che andare in carcere fosse una tappa obbligata per ottenere rispetto. Il piccolo era fissato con i fucili a pompa, conosceva il nome di ogni pezzo. Ero tormentata ma alla fine ho detto a Di Bella “li do a voi, portateli via da qui”». Adesso il piccolo si trova in una comunità in Calabria, non parla più di fucili a pompa e frequenta corsi di judo. Il grande lavora in una pasticceria del Centro Italia.
Questa invece è Daniela, 37 anni: «Mio marito fu ammazzato nel 2008 dalla stessa sua sostanza, la mafia. Mi ha lasciato sola con tre figli e solo così ho capito che ci aveva costretto a vivere come schiavi. Ho abbandonato il clan insieme ai miei figli, oggi viviamo ma ci tocca nasconderci per colpa del nostro cognome». Poi c’è Rita, che la scelta la fece già nel 1994, e oggi arrotonda i suoi discorsi attorno alle parole “rinascita” e “ricostruire”. «Si può avere un altro futuro anche se si è nati in una ndrina, basta avere coraggio... alle donne calabresi dico che la forza di una mamma vince su tutto».
È dal 2012 che il giudice Di Bella lavora per togliere i figli della ‘ndrangheta all’asfissia dell’educazione del clan. Lo strumento è giurisprudenziale, si chiama “provvedimento di decadenza (o di limitazione) della responsabilità genitoriale” e si può attivare quando l’incolumità psico- fisica dei minori è in pericolo. In sostanza, si tratta di strappare fisicamente i ragazzi alle famiglie mafiose e a un futuro già scritto, per provare a riscriverne un altro diverso in un altro luogo. Argomento delicatissimo anche quando i protagonisti sono padri e madri criminali, in ballo ci sono vincoli di sangue e diritti naturali.
Di Bella si è sentito chiamare anche “ladro di figli”, proprio per questo. Non si è scoraggiato. La sua idea è diventata realtà per la Calabria, un sentiero alternativo intrapreso da una cinquantina di ragazzi e sette donne adulte. «Dieci di loro sono diventati maggiorenni – racconta il magistrato – di questi, cinque sono rimasti fuori dalla Calabria a lavorare, gli altri sono tornati ma solo uno è incappato nella giustizia e non per un reato di mafia. Altre mamme ci stanno pensando e per la prima volta anche un padre, dal carcere, ha apprezzato ciò che stiamo facendo. La rete delle diocesi e della Caritas ci sta dando una mano importantissima». Spesso però le difficoltà spuntano dove non ti aspetti. «Ci sono comuni calabresi i cui assistenti sociali per paura si rifiutano di andare a prelevare i ragazzi, e anche le scuole non collaborano come potrebbero», dice Di Bella.
La sua idea è diventata un protocollo firmato tra governo, il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, la Conferenza Episcopale italiana e il presidente di Libera Don Luigi Ciotti, per estendere l’iniziativa a tutto il territorio nazionale. Sono stati stanziati 300.000 euro, metà dal Dipartimento per le Pari Opportunità, metà dalla Cei, per il sostegno alle comunità, alle case famiglia e alla rete degli psicologi coinvolti. Il documento è stato siglato proprio nel giorno di apertura a Roma di “Contromafie”, quest’anno dedicata ai legami tra mafia e corruzione. «È in atto una rivoluzione tra tante mamme e donne che rompono i codici millenari e che per amore viscerale verso i propri figli cercano un’altra strada per non farli crescere nella cultura mafiosa», ha detto Don Ciotti alla platea dell’Angelicum Congress. «Molte famiglie mafiose ci chiedono di costruire un percorso diverso per i propri figli, da un’altra parte».