la Repubblica, 3 febbraio 2018
Sì ai vescovi scelti da Pechino. Il Papa cerca la svolta con la Cina
CITTÀ DEL VATICANO A meno di ripensamenti dell’ultimo momento, sempre possibili con la Cina, la decisione che Francesco andrà a prendere in tempi moderatamente brevi segna un passo di grande novità. Il Papa, infatti, è intenzionato ad accettare la legittimità di sette vescovi patriottici, un tassello inedito nei confronti di Pechino che fino a oggi vedeva la proprie nomine episcopali infrangersi senza soluzione contro il muro della Santa Sede che procedeva, ipso facto, con la scomunica. Ma la volontà di appeasement è oggi agli atti Oltretevere, la svolta a un centimetro. Il riconoscimento dei vescovi potrebbe in seguito portare Pechino anche ad accettare a sua volta l’autorità della Chiesa cattolica in Cina. E quindi – è questo un auspicio – a concedere maggiore libertà ai circa dodici milioni di cattolici presenti nel Paese e oggi divisi fra l’associazione governativa guidata dal Partito comunista, e una Chiesa clandestina che fra mille vessazione si è sempre dichiarata fedele alla Santa Sede.
Certo, nelle scorse ore non tutto è filato liscio. Hanno fatto rumore le dichiarazioni del cardinale cinese Joseph Zen Ze-Kiun, vescovo emerito di Hong Kong, contro la linea della diplomazia pontificia a suo dire senza che vi sia una comunione d’intenti fra i vertici della stessa Chiesa. Per Zen, Roma sta «vendendo la Chiesa cattolica in Cina»: in sostanza, l’apertura alla Chiesa patriottica significherebbe avallare un’esperienza scismatica ai danni della comunità clandestina, l’unica legittima a suo modo di vedere. In risposta alle parole di Zen è intervenuta la sala stampa vaticana che attraverso il portavoce Greg Burke ha spiegato come sulle questioni cinesi non vi siano divergenze fra il Papa e i suoi collaboratori: «Desta sorpresa e rammarico che si affermi il contrario da parte di persone di Chiesa e si alimentino confusione e polemiche». L’uscita, così decisa e tempestiva, mostra quanto il tema sia sensibile in Vaticano e come nella sacre stanze si presti particolare attenzione al dossier al fine di non sprecare un risultato che si ritiene imminente e insieme decisivo.
Non tutto si deve al pontificato in corso. Nonostante vi sia chi sottolinei una divergenza di vedute fra Bergoglio e Joseph Ratzinger, fu in verità già quest’ultimo a mettere nero su bianco, nella Lettera inviata ai cattolici cinesi nel 2007, che la soluzione dei problemi «non può essere perseguita attraverso un permanente conflitto con le legittime autorità civili». Per lui, tuttavia, la cesura che introducevano i vescovi illegittimi era reale. Anche se nei loro confronti non cercava lo scontro.
Il Papa tedesco non sempre fu supportato da scelte lungimiranti operate dai suoi collaboratori, tanto che sovente con Pechino i rapporti furono a un passo dallo stallo, a causa anche di un pontificato che per la prima volta in tempi recenti non vedeva né il vescovo di Roma né il segretario di Stato provenienti dal servizio diplomatico. Francesco ha rimesso in questo senso le cose a posto. L’arrivo del cardinale Pietro Parolin, allievo di Casaroli e membro della scuola di piazza Minerva, al posto di Tarcisio Bertone, ha riposizionato le relazioni con Pechino sui canali di apertura.
Francesco, come rivela l’ultimo libro di padre Antonio Spadaro, “Il nuovo mondo di Francesco” (Marsilio), ritiene il lavoro della diplomazia vaticana decisivo. Un lavoro a 360 grandi che, come già anticipato da Repubblica, porterà sul fronte cinese a un imminente scambio di opere d’arte fra i musei vaticani e la Città proibita, a conferma di una contaminazione sempre più agli atti.