Corriere della Sera, 5 febbraio 2018
Montale dal vero, l’incontro felice
C’è anche lui nella casa milanese di Eugenio Montale, al terzo piano di via Bigli 15, quando l’ambasciatore di Svezia telefona per annunciare al poeta che gli è stato assegnato il Nobel. Nel suo racconto c’è tutto, di quel 23 ottobre 1975. Lo scambio di frasi imbarazzate con il diplomatico, «Oui, monsieur… merci… je suis très heureux …», e la confusione dei cronisti già alla porta. Il pallore e lo sgomento del premiato che chiede alla governante, la Gina, il tempo di una sigaretta – e mentre l’accende le dita gli tremano – prima di sedersi a tavola per un piatto di riso all’olio e polpette con l’insalata. E la sua impazienza davanti ai continui trilli telefonici, con richieste di dichiarazioni. Per cui sbuffa: «Dovrei dire cose solenni, immagino, ma come si fa a dire cose non banali? Mi viene un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch’io?». Infine arriva un telegramma di Riccardo Bacchelli, che era stato anch’egli più volte candidato dall’accademia svedese: «Mi hai fregato!», legge a voce alta, con un sorriso sfuggente.
Solo una persona con le qualità di Giulio Nascimbeni poteva ricostruire con frammenti così rivelatori la giornata più memorabile di Montale. Solo un giornalista con il suo equilibrio, la sua acuta sensibilità e finezza intellettuale era in grado di rompere, senza invadenze, la riservatezza di un uomo chiuso e pieno di fisime e idiosincrasie come l’autore degli Ossi di seppia e delle Occasioni.
Quello, del resto, fu un momento indimenticabile anche per lui. Perché avrebbe dovuto rimettere mano alla biografia del poeta che aveva già pubblicato nel 1969, il che significava nuovi e lunghi colloqui. «Una fortuna», spiegava. Chissà se, dicendo questo, aveva in mente la dedizione e le facoltà critiche con cui Johann-Peter Eckermann si era accostato a Goethe per delle «conversazioni» che, fin dal 1836, si sarebbero imposte come un modello letterario. «Il miglior libro tedesco che sia mai stato scritto», si spinse a definirlo Nietzsche.
Senza azzardare analoghe iperboli, è un fatto che Gianfranco Contini, sempre avaro di lodi, si fosse dichiarato entusiasta del ritratto montaliano composto da Nascimbeni. Ed è una curiosa casualità che, a dieci anni dalla scomparsa dell’amatissimo capo della Terza Pagina del «Corriere della Sera» (che con lui fu una scuola di morale professionale) e a 70 anni dall’ingresso del poeta in via Solferino come «redattore», il volume sia oggi riproposto in una nuova edizione.
Scelta opportuna, perché tutto si tiene nel doppio anniversario. Basta scorrerne i capitoli per ritrovarvi lo smalto e la forza evocativa di quando apparve la prima volta, aprendo squarci di luce sulla storia intima di una figura che aveva segnato la nostra cultura del Novecento, fino a diventarne un’icona.
L’amicizia tra i due era nata al giornale e si era consolidata e approfondita in infiniti incontri. Anche a livello familiare, con scambi di visite tra la Toscana e il Veneto. Nascimbeni, che non riuscì mai a dare del tu a «Eusebio» (come Montale era chiamato al giornale) sentendosene sempre intimidito, ebbe il privilegio di «attingere alla testimonianza diretta del personaggio», alla sua biblioteca, alle carte e lettere. Fu così che mise insieme la parabola di una vita incrociandola con una stagione di idee e con l’analisi di com’erano nati certi processi creativi. Un unico vincolo si impose, al momento della stesura: non enfatizzare nulla. In ciò tenendosi fedele al proprio stile e alla richiesta in versi che sembrava concepita apposta per lui dal padrone di casa di via Bigli: «Vissi al 5 per cento, non aumentate/ la dose…».
Altri ricordi, altri segreti sul «secondo mestiere» di Eugenio Montale, che fu il primo di Giulio Nascimbeni: quello di giornalista. Un lavoro nel quale entrambi restano ancora adesso un esempio di rigore, disciplina e umiltà generosa. Il poeta scrive il suo primo articolo sul «Corriere» di Mario Borsa nel 1946, ma è un esordio quasi casuale, una collaborazione che pare senza futuro. Gli è stata offerta la critica teatrale al posto di Renato Simoni, epurato perché cooptato grazie al fascismo fra gli accademici d’Italia. Solo che, con il rapido reintegro di Simoni, quella proposta cade e, tranne qualche recensione, l’attesa di entrare in via Solferino si trascina fino al 30 gennaio 1948. Nel frattempo il direttore è cambiato. C’è Guglielmo Emanuel quando Montale passa per Milano e decide di fargli visita. Lo scopre nervoso e preoccupato. Soprattutto poco empatico e cordiale, anche se Montale è già celebre e circondato da grande prestigio.
Ed ecco il flashback di Nascimbeni. «Sul tavolo del direttore c’era la strisciolina di carta di un flash d’agenzia con la notizia dell’assassinio di Gandhi. “A chi lo facciamo scrivere il pezzo?”, chiese Emanuel a Michele Mottola, il redattore capo. Entrambi si voltarono verso Montale. Il poeta era come rattrappito in un angolo della stanza semibuia. Capiva di essere arrivato al giornale in uno di quei momenti in cui non c’è tempo per i convenevoli, e se ne sentiva in colpa. Emanuel disse: “Me le scriverebbe lei quattro o cinque cartelle su Gandhi?”. Dopo qualche minuto Montale si trovò solo in una stanza davanti a una macchina da scrivere. Era un lentissimo dattilografo: batteva i tasti soltanto con l’indice della mano destra. Ma in due ore l’articolo fu pronto e uscì sul Corriere del 31 gennaio, come apertura della prima pagina. Era intitolato Missione interrotta e non recava né firma né sigla».
Il giorno dopo Montale fu chiamato a firmare il contratto. Coincidenza di rispecchiamenti tra i due: sia lui che Nascimbeni, arrivato in via Solferino 12 anni più tardi, furono scelti con l’esame di un solo «pezzo».