Corriere della Sera, 5 febbraio 2018
Le nuove saudite: auto, jeans & Despacito. «Lavoreremo di più, sarà meglio per tutti»
Davanti casa, in un quartiere residenziale di Gedda, una ventenne velata di nero si siede al volante. La mamma Dalal, al suo fianco, sistema lo specchietto, ma non appena accendono il motore un vicino si affaccia alla porta. Il loro primo timore è che possa denunciarle. Dalal Kaaki, preside in pensione di una scuola superiore femminile, porta un bracciale che dice #IAmMyOwnGuardian (sono la guardiana di me stessa). Vuole insegnare alla figlia Alyaa a guidare, proprio come suo padre lo insegnò a lei. La differenza è che una volta era proibito alle donne saudite, ma ora mancano quattro mesi alla storica fine del divieto. Da giugno, il re Salman ha concesso questo diritto, come parte di una serie di riforme economiche e sociali, «la Visione 2030», lanciate dal figlio 32enne Mohammed bin Salman. Le ditte automobilistiche sono agguerrite, con spot e sconti mirati alla nuova clientela. Uber e il suo equivalente mediorientale Careem assumeranno autiste donne. La prima scuola guida aprirà tra marzo e aprile presso l’università femminile Principessa Nourah. Tuttavia, Alyaa confessa: «Ho un po’ di paura ad uscire in auto per strada». La sua generazione osserva le riforme con cauto ottimismo.
«Sono un’attivista dal 1990», dice Madeha Al Ajroush, psicanalista a Riad: è una delle 47 saudite che quel 6 novembre si misero al volante nella prima protesta contro il divieto di guidare. «Fummo detenute per 24 ore, chi lavorava nel settore pubblico restò disoccupata per due anni e ci vietarono di viaggiare per 9 mesi. Al tempo facevo la fotografa perché non c’erano molte chance d’impiego: bruciarono tutti i miei negativi, il lavoro di 15 anni. Le moschee ci chiamarono prostitute: non volevano che fossimo eroine. Le donne saudite hanno sempre usato l’auto come simbolo di liberazione. Volevamo liberarci dal sistema del Guardiano, avere più opportunità di lavoro, essere come gli uomini dal punto di vista legale». Erano stanche d’essere trattate da eterne minorenni, sotto la responsabilità del parente maschio più prossimo. «Vent’anni fa non avevamo nemmeno la carta d’identità: fu una delle prime richieste», sottolinea Dalal, che s’è unita al movimento dopo aver sperimentato, nel 2000, quant’è difficile divorziare. All’uomo basta dire «divorzio da te»; la donna deve andare in tribunale, avere una buona ragione (e mezzi di sostentamento).
Dal 2005 al 2015, re Abdullah ha aumentato l’accesso delle donne all’istruzione e ai primi impieghi a partire dai negozi di lingerie; ha aperto loro il parlamentino consultivo, la Shura, e le elezioni municipali. Il nuovo re e il figlio vanno più veloce. Un anno fa hanno permesso alle donne di studiare, lavorare e andare in ospedale senza il consenso del Guardiano, che però resta necessario per cose come viaggiare all’estero o sposarsi.
Eman El Nafjan, 38 anni, insegnante, madre e autrice del blog «Saudiwoman», ci riceve in salotto a Riad, durante un «book club» con le amiche, chi in jeans, chi in minigonna. Aveva quasi perso la speranza dopo 27 anni di campagne per la guida; ora si augura che i cambiamenti non siano solo «cosmetici». Un’amica, infermiera ventenne, sottolinea che sarà difficile scardinare i matrimoni combinati: «Tribù e territorio sono più importanti dei diritti umani».
La Visione 2030 vuole «saudizzare» l’economia, per ridurre la disoccupazione giovanile, e «femminilizzare» il mercato del lavoro. La prima mossa, venti mesi fa, è stata togliere il potere alla mutawa, la polizia religiosa, che fa rispettare regole come il velo. A un «food festival» a Gedda, abbiamo visto giovani DJ scatenati ballare Despacito : le ragazze non osavano, ma chiacchieravano con loro, alcune senza hijab. «È l’economia a portare sempre i cambiamenti, e ora siamo benedetti da una pessima economia», ride Ajroush. «Anche i più conservatori dovranno adattarsi, perché i loro figli e figlie non troveranno lavoro se la società resta segregata. Sempre più donne in niqab negoziano con gli uomini per scoprirsi il viso e lavorare. E non ci vuole molto a convincerli perché serve il salario di entrambi per mantenersi». Allo stadio, da poco aperto alle donne, l’ingegnere Mansour Mohamed, giunto dalla Mecca con moglie e figlie in niqab, dice di non essere contrario che imparino a guidare.
Agli occhi di molti i cambiamenti sono enormi. «Mio marito, al ministero del Lavoro, teme che lo licenzino, stanno assumendo moltissime ragazze», dice Dana Alqatan, 27 anni, capo-commessa da Dior. Sa già guidare, ma come molte saudite non ha fretta e vuole vedere le reazioni: «Tanta gente è contraria. E poi, se guido, mio marito vorrà che faccio io la spesa, e non ci sto: è compito suo!». L’autista ha costi proibitivi, ma anche il prezzo della benzina, con la recente fine dei sussidi, è triplicato. «Noi saudite eravamo viziate», lamenta. «Ora è arrivata l’austerità: dovremo svegliarci alle sei, accompagnare i figli a scuola e poi andare a lavorare per otto ore».
La monarchia, però, non tollera critiche, e non vuole neanche che i liberal «cavalchino» le riforme. Pare che tre giovani portavoce dell’erede al trono, attivi sui social, abbiano potere diretto di censura. Sono stati arrestati religiosi conservatori, ma anche attivisti dei diritti umani – Essam Koshak, Alaa Brinji, Essam Al Zamil —: alcuni avevano appoggiato le campagne delle donne per la guida e contro il Guardiano. «Ad entrambi i gruppi, progressisti e non, è stato chiesto di non parlare», conferma Al Ajroush. «Ma non m’importa: il programma del governo è a beneficio della società». «Certo – nota la blogger El Nafjan – non mi sarei immaginata che con tante nuove libertà, la censura avrebbe raggiunto il punto massimo».