La Lettura, 4 febbraio 2018
Il paesaggio è mobile e lo plasma chi guarda. Intervista a Dirk Sijmons
«L’ identità di un luogo? È un verbo». Dirk Sijmons – olandese, architetto paesaggista – sarà a Treviso il 15 e 16 febbraio per partecipare alle Giornate internazionali di studio sul paesaggio promosse dalla Fondazione Benetton Studi Ricerche. E per rispondere, tra le altre, a una domanda che, spiega, evoca concetti remoti come il genius loci ma, in realtà, tocca nervi molto attuali. E molto scoperti.
Anche i luoghi hanno un’«identità»?
«Dopo la lingua, il luogo in cui si vive è probabilmente il secondo più importante elemento del concetto di identità, così stratificato e complesso. Nel mondo globalizzato c’è un bisogno crescente di “locale”. Anche nella vita movimentata del jet-set si ha la necessità di ritornare in una casa che chiamiamo nostra. Per altri meno privilegiati, un luogo può agire da rifugio sicuro di un noi contrapposto a un pericoloso loro, un baluardo contro gli effetti disorientanti della globalizzazione sulla propria cultura».
Ma dare ai luoghi un’identità è un bisogno antico.
«Per i romani, il genius loci era lo spirito protettivo di un luogo raffigurato con attributi come la cornucopia, la patera o il serpente. Già in epoca romana questa nozione di specificità viene usata politicamente per identificare una regione. Le associazioni di quartiere fanno sacrifici al genius locale, alcuni distretti hanno il loro culto organizzato attorno agli spiriti guardiani o ai lares compitales dei crocicchi. Sotto Augusto questo viene esteso a tutto l’impero: il genius dell’imperatore è considerato il genius loci dell’Impero nel suo insieme».
Che cosa definisce l’identità di una regione?
«Il genius loci è, per definizione, la specificità di un luogo e, per chi ci crede, una caratteristica intrinseca dello spazio stesso. Ma se ci si riferisce a un’entità più grande, diciamo l’Italia, si parla di “identità”. Se esiste un’identità nazionale, cosa di cui dubito, questa sarà fatta da vari elementi, liberamente condivisi e talvolta frutto di una visione piuttosto personale. Come la bellezza, l’identità è in un certo senso negli occhi di chi guarda. Io, da straniero, potrei avere un’immagine superficiale dell’Italia, fatta di bei paesaggi e città. Un italiano, noterebbe le sfumature diverse tra le regioni (e le cucine!) e costruirebbe la sua “Italia” combinando queste visioni (e i ricordi dei paesaggi di gioventù e delle partite degli Azzurri) arrivando a definire un’“identità italiana” molto diversa dalla mia».
L’identità sfugge anche perché cambia: preservare i paesaggi come le opere d’arte è innaturale?
«Un paesaggio è come una casa. Per chi lo usa, in genere un agricoltore, i suoi elementi sono i mobili: di tanto in tanto vorrà modernizzarli, sostituirli. Non credo che si debba cercare di fermare il cambiamento, piuttosto provare a guidarlo. Non serve la boxe, ma il judo! Dobbiamo lavorare sull’identità, ecco perché la definisco un verbo».
Se il paesaggio è un’arma nella guerra sull’identità, che cosa devono fare i paesaggisti?
«Non dobbiamo evitare la battaglia, ma essere consapevoli del fatto che il nostro lavoro potrebbe assumere risvolti politici e per questo essere usato, e abusato».
Il paesaggista sa che ciò che crea è temporaneo.
«Forse perché lavora con la materia vivente e i processi naturali e sociali, l’architettura del paesaggio riguarda anche i temi della decadenza e della mortalità. A mio avviso, lavorare con i processi viventi è ciò che distingue la nostra disciplina ed è il terreno su cui si gioca il suo più importante contributo futuro. Oltre a cercare il genius del luogo, dovremo preoccuparci del genius del processo».