La Lettura, 4 febbraio 2018
Una scossa al cervello per essere collaborativi
Sarà capitato anche a voi di vedere una simpatica vignetta raffigurante due somarelli che tendono ciascuno alla propria greppia per mangiare, ma sono legati con una fune l’uno all’altro. Se ognuno dei due tira per raggiungere il proprio cibo, nessuno dei due riesce a mangiare. Ma se fanno a turno – prima mangia uno, poi mangia l’altro – si rifocillano entrambi senza problemi. Questi sono, secondo l’autore della vignetta-apologo, i vantaggi della cooperazione contrapposta alla competizione. Almeno in teoria, noi uomini pensiamo che la cooperazione sia molto migliore della competizione e tutta la nostra civiltà è stata costruita fondandosi su tale convinzione. La vita degli animali diversi da noi mostra inclinazioni cooperative e inclinazioni competitive mischiate e compresenti.
La nostra predilezione per un atteggiamento cooperativo, che osserviamo abbastanza spesso ma non sempre, è quindi frutto di educazione, di autopersuasione e di persuasione. Molto di quello che abbiamo fatto collettivamente negli ultimi secoli e che fanno ogni giorno genitori ed educatori riguarda proprio la necessità e la convenienza di instaurare un modo di comportarci incline alla cooperazione piuttosto che alla competizione. L’impresa non è sempre facilissima e cambia da posto a posto, da epoca a epoca e anche da individuo a individuo. È legittimo quindi chiedersi da cosa dipenda il successo o l’insuccesso dello sforzo educativo e, in particolare, se tale successo è più funzione dell’efficacia dell’educazione o dipende di più dall’indole dei singoli individui.
Ora, un aiuto alla definizione di una risposta soddisfacente si può tentare attraverso una strategia sperimentale, usando ovviamente animali di laboratorio, anche se è ben chiaro che un topo o un ratto non sono esseri umani.
Per motivi che ci sfuggono, gli esempi di spirito collaborativo sono rarissimi in animali di laboratorio, e comunque incredibilmente meno numerosi che in animali che non vivono in cattività. Un team di ricercatori coreani ha usato ora i topi come materiale di studio e ha raggiunto risultati che a me paiono molto interessanti e abbastanza inattesi. Moltissimi animali di laboratorio, inclusi i topi impiegati nell’esperimento in questione, sono piuttosto refrattari a cooperare e passare così sopra alla prepotenza che un individuo dominante esercita sull’altro. Non è chiarissimo che cosa determini tale tipo di dominanza, anche se le dimensioni corporee certamente contano, ma è sempre comunque abbastanza evidente chi sia l’individuo dominante, anche se questo richiede occasionalmente una breve lotta. Sia che si tratti di gruppi di individui, sia che si tratti di solo due individui, come nel caso dell’esperimento descritto. A noi è chiaro che questa impostazione finisce per danneggiare entrambi gli individui, nell’immediato e ancora di più a lungo termine, ma a loro evidentemente no. Questa quindi è la situazione di partenza: il topo che si ritiene dominante cerca di imporsi all’altro, anche se a lungo andare la cosa non reca vantaggio a nessuno dei due. Si può ovviare a questo stato di cose? In altre parole, si possono «educare» i due topi a osservare un comportamento più paritario e «pacifico», che a lungo andare può divenire anche collaborativo? È ovvio che la risposta è sì, ma c’è una sorpresa.
L’educazione dei topini avviene attraverso un condizionamento, un premio viene cioè dato a chi si comporta come noi desideriamo, superando l’impulso verso un comportamento competitivo, che si mostrerà nel caso specifico come un’inclinazione dispotica alla prepotenza basata sulla gerarchia. Il premio può consistere in una razione di cibo o in una piccola stimolazione elettrica, somministrata senza fili, in una specifica regione del cervello – essenzialmente il talamo dorsomediale – nota per essere coinvolta nella scelta di strategie comportamentali implicanti cooperazione o competizione. Ebbene, la somministrazione di cibo, per quanto gradita, non riesce a far imparare a cambiare strategia ai topini, mentre la piccola stimolazione elettrica sì. L’esperimento è tutto qui. Come commentarlo?
Anche mangiare quando si ha fame mette in moto certe aree del cervello e, per così dire, le acquieta, ma l’azione è mediata da molti fattori. Viceversa, si possono stimolare direttamente le stesse aree con un impulso elettrico, ovviamente blando. La stazione finale è quindi la stessa, ma diversi sono il tragitto e le modalità di realizzazione: una è un’azione diretta e un’altra un’azione mediata da un complesso di eventi, sia esterni al corpo stesso che fisiologici. Poiché nelle condizioni dell’esperimento non è facile ottenere il risultato sperato, ovvero la soppressione dell’istinto di sopraffazione e di imposizione del proprio interesse egoistico, la stimolazione diretta delle aree cerebrali interessate ha più probabilità di successo. In un certo senso il ragionamento è scontato, ma che conseguenze ne possiamo trarre? Ognuno trarrà le sue, ma la mia lettura è semplice.
L’educazione, che altro non è che l’elaborazione di un complesso ordinato di condizionamenti, talvolta può non funzionare a dovere o addirittura per niente. Per questo a volte si rimane profondamente frustrati e si parla di una nostra impotenza e di un senso di finitudine. Intervenire direttamente sul cervello, magari con un farmaco, può avere un altro effetto, magari più tangibile. Occorre quindi sempre valutare l’efficacia del metodo di educazione ed eventualmente cambiarlo. E comunque, perché un qualsiasi effetto educativo o psicologico duri, occorre raggiungere in qualche maniera il cervello stesso. Ogni forma di progresso sociale esterno deve per forza passare da dentro, attraverso un processo che qualcuno chiama interiorizzazione.