La Lettura, 4 febbraio 2018
Il sogno di blockchain : la società senza Stato
Non solo bitcoin, sinonimo di massicci e incomprensibili arricchimenti per tutto il 2017 (seguiti da cocenti delusioni all’inizio del nuovo anno).
Dalla fitta, oscura foresta del linguaggio della tecnologia spunta un’altra parola magica, non nuova ma fino a qualche tempo fa rimasta nella penombra: blockchain. Il 20 dicembre scorso la Long Island Iced Tea Corp, società produttrice di bevande analcoliche quotata al Nasdaq che, da quando è stata fondata, nel 2011, non ha mai guadagnato un dollaro, ha cambiato il suo nome in Long Blockchain Corp, annunciando una generica intenzione di cercare un partner per investire in questa tecnologia di certificazione digitale, fin qui usata soprattutto per dare credibilità alle criptovalute. La mattina dopo il titolo ha quasi quadruplicato il suo valore (da 2,44 a 9,49 dollari per azione, prima di assestarsi e chiudere a quota 6,91). Furbizie e follia speculativa, certo, ma dietro si intravede anche altro.
Rimasta sullo sfondo negli anni in cui i bitcoin venivano liquidati come il veicolo efficiente e anonimo usato dalla criminalità economica per lavare il denaro sporco, ora la catena di blocchi sale sul palcoscenico, catturando anche l’attenzione dei profani, oltre che dei professionisti della tecnologia. E se nel caso delle criptovalute il motivo dell’attenzione è quasi sempre un desiderio di arricchimento rapido, la blockchain – utilizzabile anche in campo sociale, politico e amministrativo, oltre che finanziario – ha attirato l’attenzione non solo di speculatori e tecnologi, ma anche di politici, imprenditori, attivisti e uomini di cultura.
Come il celebre economista dello sviluppo peruviano Hernando de Soto, secondo il quale la blockchain può essere un’efficace arma contro l’indigenza nei Paesi poveri: certificando i diritti di proprietà di terreni e costruzioni (o anche solo capanne) dei contadini dove non esistono registri catastali pubblici affidabili, è possibile dare anche a indios diseredati un minimo di patrimonio e sicurezza economica. In Perù ha funzionato, anche se qui è stata utilizzata più la tecnologia satellitare Gps che una blockchain ancora tutta da sviluppare.
«Esperienze interessanti, ma dobbiamo chiarirci subito le idee sui modelli adottati» dice Marcella Atzori, ricercatrice di Tecnopolitica ed e-government presso Ucl (University College of London) e consulente del Parlamento europeo e della Commissione esecutiva di Bruxelles. «Sapendo che per ogni sistema va studiata una specifica catena: il sistema aperto dei bitcoin non può essere usato per gestire i dati sensibili di uno Stato. Qui servono architetture chiuse. A meno che non si vogliano seguire le utopie degli anarco-capitalisti, e anche di alcuni neoliberisti, soprattutto americani, che sognano una società senza Stato col trasferimento del potere dalle istituzioni ai mercati e agli individui autorganizzati grazie agli strumenti informatici».
Materia complessa quella della nuova tecnologia di certificazione, sviluppata originariamente da Satoshi Nakamoto, il misterioso inventore dei bitcoin, per garantire che una stessa impalpabile moneta virtuale non fosse replicata, e quindi spesa, più di una volta. Riducendo all’osso: parliamo di operazioni che consistono nell’inserire una certa informazione, anziché in un database modificabile da chiunque, in un sistema di blocchi basato su codici inalterabili, legati uno all’altro in una catena consultabile da chiunque perché replicata su ogni server delle reti informatiche, ma al tempo stessa protetta da un sistema di crittografia per garantire la riservatezza di alcuni dati.
Colpiti dalla creazione di improvvise fortune, ci siamo fin qui occupati soprattutto della bolla delle criptovalute, ma in realtà da anni è allo studio l’uso della blockchain in molti altri campi: dalla certificazione delle proprietà immobiliari all’identificazione degli homeless che vivono nelle strade di New York, dall’Onu che vuole usare questa tecnologia per gestire gli aiuti nei campi profughi al tracciamento di una catena alimentare in modo da individuare la provenienza di ogni prodotto agricolo: se ne ricostruiscono il percorso dai campi alla tavola, i trattamenti, eventuali contaminazioni.
Dunque sono possibili impieghi di questa catena in campo economico e sociale, ma la tecnologia è promettente anche nella gestione dei processi amministrativi, visto che la blockchain può attestare in modo certo, indelebile e perenne un atto (un pagamento come l’identità di una persona) senza bisogno, almeno in teoria, di un ente certificatore: la banca che registra le transazioni, comune o questura che emettono carte d’identità e passaporti, catasto e motorizzazione per case e veicoli. E qui la questione si fa politica, perché la blockchain può favorire la diffusione di forme di democrazia diretta, visto che è utilizzabile anche per rendere più sicuro un voto eventualmente espresso dai cittadini via computer. Ma c’è anche un’altra suggestione ideologica legata all’architettura decentrata della catena che consente di immaginare, come detto, sistemi privi di un’autorità centrale.
In teoria con la blockchain non c’è più bisogno di un database centralizzato e del potere dello Stato che ne garantisce l’autenticità: quei dati sono impressi in modo indelebile, come scolpiti nel marmo, della catena dei blocchi. Impossibile modificarli. A pensarci bene, la criticatissima bolla speculativa dei bitcoin è anche lei una testimonianza dell’efficacia di questa catena: la criptovaluta ha visto crescere il suo valore perché c’era la certezza che nessuno avrebbe potuto falsificarla e, quindi, inflazionarla moltiplicandone l’offerta.
Dietro ai «minatori» che estraggono valute digitali dalla potenza di calcolo dei supercomputer si muovono, insomma, molte altre forze in questo mondo ancora poco noto. Il grande pubblico si è tenuto fin qui a distanza per la complessità della materia, ma anche perché spaventato dalle prime applicazioni piratesche delle criptovalute (le scorribande criminali di Silk Road, mercato nero digitale della droga alimentato con i bitcoin). E perché l’origine di questo nuovo universo digitale è tuttora avvolta nel mistero.
A dieci anni dalla nascita di bitcoin e blockchain, ancora non conosciamo la vera identità del loro creatore. Ha un nome, Satoshi Nakamoto, e dovrebbe essere plurimiliardario (i bitcoin che ha estratto e tenuto per sé alla fine del 2017 valevano 19 miliardi di dollari). Nel 2012 ha descritto sé stesso in rete come un uomo di 37 anni che vive in Giappone, ma nessuno l’ha mai visto. Ha sempre scritto tutto in inglese, a suo agio anche con termini dialettali. E un’analisi dei moltissimi messaggi da lui messi in rete nell’arco di vari anni mostra che Satoshi non ha quasi mai trasmesso nelle ore che coincidono con la notte americana. I giornalisti investigativi hanno identificato vari possibili Satoshi: da Nick Szabo, un genio informatico ungherese-americano con un debole per gli pseudonimi, a Dorian Satoshi Nakamoto, fisico nippo-americano, ingegnere dei sistemi, che vive in California. Ma tutti hanno sempre negato e non sono mai emerse prove definitive.
Data la complessità della nuova tecnologia e del lavoro che c’è alle spalle, i più ritengono che Nakamoto sia, in realtà, lo schermo dietro il quale si nasconde un team di esperti informatici. La loro tecnologia può aprire una nuova era delle politiche monetarie: per ora siamo alle valute virtuali «private» come i bitcoin o gli ether generati dalla piattaforma Ethereum. «Ma anche i governi e le banche centrali – dal Canada alla Gran Bretagna passando per Singapore – stanno studiando la possibilità di emettere loro criptovalute» spiega Christian Catalini, un economista che insegna al Mit di Boston: un altro italiano impegnato su questa frontiera tecnologica. Anche lui vede limiti tecnici e rischi, come la volatilità e gli alti costi (soprattutto energetici) per l’emissione di queste valute. Ma parla di soluzioni allo studio e immagina per il futuro sistemi differenziati: «Magari avremo una criptomoneta decentralizzata e solida, come l’oro, ma complicata da usare e quindi impiegata solo per le transazioni principali come l’acquisto di un appartamento. E poi altre valute virtuali più leggere, con la funzione di mezzo di scambio sganciata da quella di conservazione del valore, per i pagamenti di tutti i giorni».
I confini tra uso pubblico e privato si confondono e gli scettici sostengono che per ora la blockchain è solo una bella promessa visti i limiti tecnici che i fan tecnolibertari ignorano perché sedotti dal suo fascino: una tecnologia che ridà lustro alla filosofia originaria, quella di Stewart Brand e della controcultura californiana degli anni Sessanta e Settanta, di una rete democratica, paritaria, con un potere decentrato.
L’ascesa dei grandi monopoli digitali, da Facebook a Google, ha infranto questo sogno. La blockchain, che in teoria non ha bisogno di autorità centrali e protegge col criptaggio i dati personali che oggi cediamo gratuitamente ai gruppi di Big Tech, può aprire una nuova era di condivisione paritaria? È pensabile, addirittura, un superamento degli Stati come sognano i criptoanarchici e tante organizzazioni sorte in vari Paesi come Bitnation, Flux in Australia o OuiShare in Francia? O una revisione radicale dei canoni della politica in chiave tecnologica come quella concepita dal Movimento 5 Stelle?
Per Tim Wu, giurista della Columbia University, esperto di diritto applicato all’informatica (il primo, 15 anni fa, a parlare di net neutrality) quello al quale stiamo assistendo è un massiccio «trasferimento di fiducia sociale: persa la fiducia nelle istituzioni umane, ci si rivolge alla tecnologia, ai codici dei computer». Ma il rischio è un salto nel buio: «La società senza Stato è un’utopia pericolosa e antidemocratica» sostiene la Atzori, «mentre lo sviluppo di nuove reti come quelle allo studio in Paesi molto informatizzati come l’Estonia possono rendere la gestione del settore pubblico più efficiente e anche più democratica».