Corriere della Sera, 4 febbraio 2018
Pagamenti in ritardo e pochi lavori mandano in crisi le grandi opere. E ora i big fanno rotta verso l’estero
Roma Potrebbe essere uno dei settori più trainanti del Paese. Migliaia di posti di lavoro, tra diretti e indotto. Potrebbe contribuire all’innalzamento del Prodotto interno lordo. Oltre a spingere lo sviluppo economico, migliorare la qualità della vita di ognuno e rendere il Paese più moderno. Invece le grandi opere in Italia sono ferme. Da anni gli investimenti sono pochissimi o quasi nulli (dal 2000 meno del 2% del Pil). E nessun grande progetto si intravede all’orizzonte. Eppure le aziende italiane hanno un know how tra i migliori del mondo, riconosciuto e richiesto ovunque. Tranne che in Italia.
«È un settore abbandonato, che sta scomparendo», denunciano gli addetti ai lavori. Una crisi che colpisce tutti, big inclusi. È di appena qualche settimana fa la richiesta di concordato preventivo della Condotte spa che ha debiti per quasi due miliardi di euro a fronte di un patrimonio di 214 milioni di euro. Situazione difficile anche per il gruppo Astaldi che sta valutando una ricapitalizzazione di almeno 400milioni di euro; in Borsa ne vale 280. E pure Trevi spa cerca nuovi capitali per far fronte ad un indebitamento di almeno 600 milioni di euro.
Le cause? La mancanza di una seria programmazione di interventi, prima di tutto. «Non c’è una visione politica a lungo termine con grandi progetti, un progetto strategico per il Paese – lamenta chi lavora nel settore —, quel poco che si realizza riguarda opere piccole e a brevissimo termine». Basti pensare che negli ultimi 10 anni il mercato delle infrastrutture si è contratto in media del 3,1% l’anno.
Ma non solo. Il ritardo dei pagamenti da parte dello Stato blocca le aziende. Nel primo semestre 2017, il 70% delle imprese di costruzioni registra ritardi nei pagamenti. L’attesa media per un’azienda che realizza lavori pubblici è di 156 giorni (5 mesi) contro i 60 giorni previsti dalla normativa comunitaria. Ma c’è anche chi aspetta 180-195 giorni. Con conseguenze gravissime. Il debito di Condotte, ad esempio, è quasi per metà (900 milioni) dovuto a crediti verso la pubblica amministrazione. E questa incertezza nel ritorno degli investimenti certo non aiuta ad attrarre nuovi investitori. A tutto ciò si aggiunge la complicata macchina burocratica italiana che spesso blocca i contratti per decenni, la mancanza di norme chiare e trasparenti che possono favorire fenomeni di corruzione, e un settore, quello dell’ingegneria civile, ormai troppo disomogeneo e frammentato e quindi debole.
E allora le aziende italiane si rivolgono al di là dei confini italiani. Una scelta quasi obbligata. Tra il 2004 e il 2016 il fatturato estero delle prime 7 big italiane è cresciuto del 355,4%, a fronte di una diminuzione del 22,3% di quello nazionale. Emblematico il caso di Salini Impregilo: la sua percentuale di fatturato nel mercato italiano rappresenta solo il 7%. Il restante 93% è estero. Stessa politica anche per le altre big italiane: Astaldi (84% all’estero); Rizzani de Eccher (85%); Pizzarotti (64%); Ghella (66%). Una scelta che ha significato mantenere fatturati con segno più, nonostante il mercato italiano ma che si è anche tradotta in esportazione all’estero di talenti, competenze, know how italiani. E investimenti. Negli altri Paesi Ue avviene l’esatto contrario, con il mercato domestico che rappresenta quasi la quota maggiore del fatturato. Un esempio: la francese Eiffage ottiene l’80% del suo fatturato «in casa». Per le italiane, gli Stati Uniti sono ancora il primo mercato, ma l’espansione sta toccando anche mercati come l’Africa Sub-Sahariana e il Medio Oriente (17,6% di nuove commesse) e l’Asia (13,3%).