Corriere della Sera, 4 febbraio 2018
«Quando Wojtyla mi disse: soltanto io difendo l’Italia e il Quirinale che cosa fa?». Intervista a Andrea Riccardi
Andrea Riccardi, lei fondò la comunità di Sant’Egidio cinquant’anni fa, in pieno ‘68.
«C’era un clima d’attesa, tutto doveva cambiare come per magia. Anch’io partecipai alla grande contestazione. Leggere il Vangelo mi fece capire che era il cuore dell’uomo a dover cambiare».
La sua famiglia era religiosa?
«Mio padre Alberto era un laico, liberale. Frequentava il Mondo di Pannunzio».
Cosa faceva?
«Direttore di banca. Sono romano, ma lo seguii a Rimini e Forlì, dove presi l’accento romagnolo. Papà era stato partigiano in Albania, finì in un lager vicino a Colonia. Suo fratello Tommaso era fascista. La madre lo mandò nel campo nazista a riprendere l’altro figlio».
Ci riuscì?
«No. Per convincerlo lo portò al ristorante, seguito dal piantone tedesco. Mio padre fu irremovibile: aveva giurato fedeltà al re, non al Duce. Il fratello lo riportò al lager. Ma quando il cancello si chiuse ebbe un sussulto, si tolse il cappotto e glielo lasciò. Papà lo rivendette per comprare il cibo. “Il cappotto di Tommaso mi ha fatto passare l’inverno” diceva».
Si riconciliarono?
«Ogni volta riprendevano a litigare sul re e sul Duce».
È vero che lei invece discusse con sua madre per la barba?
«Avevo 16 anni, me l’ero fatta crescere per coprirmi una piccola ferita. Mia mamma Isabella mi disse di tagliarla; per dispetto rifiutai. La porto da allora. Anche adesso che ha 92 anni, mamma ogni tanto ci riprova».
Un ricordo d’infanzia?
«Le tonsille tolte senza anestesia. E Rachele Mussolini che fa la spesa nel negozio di alimentari di Forlì. La padrona la lasciava passare davanti a tutti: “Donna Rachele, comandi”. Poi, quando usciva: “Oh, non pensate male, sono comunista anch’io; ma con tutto quello che le ha fatto il marito…”».
Quando tornaste a Roma?
«Nel 1966. Venivo da città leggere, piccole, carine, da girare in bicicletta; mi ritrovai in una megalopoli che aveva angoli da Terzo Mondo. Con i miei amici andammo nel quartiere di Ponte Marconi, al cinodromo, dove gli uomini vivevano davvero come cani. La prima scuola della pace nacque tra le baracche. Leggevamo il Vangelo, e insegnavamo a leggere ai bambini che non erano mai andati a scuola».
C’era già Comunione e Liberazione.
«Che però si collocò contro il ‘68. Noi nascemmo dentro il ‘68».
Ha conosciuto don Giussani?
«Certo. Ricordo negli anni Ottanta una sua discussione con il capo dell’Azione Cattolica Monticone e il cardinal Martini che voleva incontrarlo a Sant’Egidio riservatamente. Giussani era sanguigno, interruppe Monticone con il suo bell’accento lombardo: “Come dice San Paolo, il cuore dell’uomo cerca il futuro!”. E Martini, con la sua voce profonda: “Davvero? In quale passo lo dice?”. “Da qualche parte, nelle Lettere!”. Due mondi diversi».
Perché sceglieste il nome di sant’Egidio?
«Cercavamo una sede. C’era questo convento vuoto, di proprietà dello Stato. Lo occupammo. Incontrammo un giovane prete, un basettone: era don Vincenzo Paglia. Allora Trastevere era un quartiere popolare: le case non costavano 12 mila euro al metro quadro, i malavitosi che entravano e uscivano da Regina Coeli. Il primo giorno ci rubarono i motorini».
E voi?
«Per riaverli dovemmo ricorrere per la prima volta alla diplomazia. Trovammo il ragazzo giusto: “Me lo potevate di’ che erano vostri!”».
L’incontro con Wojtyla?
«Era il 1978, subito dopo la sua elezione. Venne in visita alla Garbatella, vide un convento di suore cappuccine, entrò, e lo trovò pieno di bambini: era l’asilo che avevamo aperto per i figli delle ragazze madri che vivevano in strada, uno era stato morso dai topi e aveva rischiato di morire».
E il Papa?
«Si fece fotografare seduto tra i banchi, con il mantello rosso, circondato dai piccoli. Poi venne a trovarci a Trastevere. E ci invitò in Vaticano. E a Castelgandolfo».
Com’era in privato?
«Pieno di passione. Amava l’Italia, fu l’ultimo a pensare che il nostro Paese avesse un ruolo universale. Anticomunista come nessuno, era però preoccupato per l’avanzata della Lega. Lo ricordo battere i pugni sul tavolo: “Solo Papa si batte per l’unità d’Italia! E il presidente della Repubblica che fa?” È stato forse l’unico, tra gli ultimi Papi, a uscire di scena da vincitore; eppure non era sereno».
Perché?
«Si sentiva tradito dalla sua Polonia, che aveva scelto la secolarizzazione. Ricordo l’ultimo viaggio in patria. Fiammeggiava come Mosé: “Io vi ho liberati, e ora voi volete l’aborto!”. Sentiva che nel ‘900 la Chiesa era tornata martire, come i primi cristiani: il nazismo, il comunismo. E visse il martirio nel suo stesso corpo. Una volta a cena Fidel Castro parlò per sei ora di fila, quasi sempre di Wojtyla: ne era profondamente affascinato».
E la Merkel?
«Grande donna: realista, concreta, con una profonda coscienza cristiana».
George W. Bush?
«Voleva venire a Sant’Egidio ma non lo lasciarono, motivi di sicurezza; andammo noi all’ambasciata americana. Uomo gradevole, simpatico. Ma parlargli di pace lo lasciava freddo».
Voi faceste la pace in Mozambico.
«Là vidi per la prima volta le persone morire di fame, i bambini con le pance gonfie, le donne assediare lo spaccio e contendersi un’arancia o una mela gettata per tenerle a bada; e le assicuro che è una cosa orrenda. Andammo per aiutare i poveri; capimmo che è la guerra a creare i poveri. Con Matteo Zuppi, ora arcivescovo di Bologna, ci dicemmo che l’unico modo era costruire la pace».
Il Mozambico era lacerato dalla guerra civile: il governo filosovietico contro la guerriglia armata dal Sud Africa.
«Anche i bianchi erano poveri: non avevo mai visto in Africa un mercato ambulante con un banco tenuto da una donna bianca. Il regime aveva deportato 200 mila “asociali”: la borghesia del Paese. Trovammo la figura chiave nel vescovo Gonçalves, che era cugino di Dhlakama, il capo dei ribelli. Portammo il vescovo a Roma, da Berlinguer».
Perché Berlinguer?
«Il Pci nel mondo marxista contava. Lui si indignò: “Davvero siete perseguitati? Davvero non vi lasciano suonare le campane?”. Così mandò a Maputo suo fratello Giovanni. Poi portammo il capo del governo, Samora Machel, da Wojtyla. All’inizio non voleva saperne: era convinto di doversi inginocchiare davanti a lui. Alla fine Wojtyla disse: “Papa non crede che è un comunista. Papa di comunisti si intende. Questo è un nazionalista”. La pace si poteva fare».
Nel 1982 lei andò in Libano.
«Là invece vidi le persone morire in guerra. Visitai Sabra e Chatila dopo la strage, portai le foto a Giovanni Paolo II. Non riusciva a credere che un cristiano potesse averlo fatto».
Si parlò di lei come ministro degli Esteri del governo Monti, poi le diedero la Cooperazione e l’Integrazione. Come andò?
«A dire il vero prima mi parlarono della Pubblica Istruzione ma non volli, poi la Cultura ma non andò. Ma al tempo l’Italia era del tutto assente dall’Africa. C’era molto da fare».
Perché su Monti è scesa la damnatio memoriae?
«Perché si dimenticano le condizioni drammatiche in cui si insediò. La gente ci fermava per strada, ci incoraggiava. Ma gli italiani dopo un anno si stufano di qualsiasi governo».
Monti divenne impopolare già prima, con la legge Fornero.
«Si dovette fare una riforma delle pensioni in 15 giorni, vennero commessi alcuni errori. Ma l’Italia campa ancora sulle pezze messe da Mario Monti».
Renzi?
«La crisi del Pd è drammatica, perché era l’ultimo partito rimasto. La sinistra rischia la scomparsa».
Berlusconi o Di Maio?
«Gentiloni».
Sant’Egidio collabora con il governo per aprire corridoi umanitari per i profughi.
«Sono 2.500, fuggono davvero dalla guerra: siriani, somali, eritrei. Il primo accordo l’abbiamo stretto con i protestanti, il secondo con la Cei. Abbiamo fatto lo stesso in Francia. E in Polonia, ma i vescovi hanno avuto il veto del governo. Li ha accolti un’Italia buona, aperta, che lavora in silenzio. Allo Stato non costano un euro».
Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, dice che l’immigrazione islamica incontrollata può essere molto pericolosa.
«Di Segni era mio compagno di scuola. Lo stimo. Noi lavoriamo proprio per fermare i trafficanti e regolare l’immigrazione. I giovani africani che partono non credono più nei loro Paesi. Dobbiamo motivarli a restare».
Non teme che il Papa, schierandosi con i migranti, abbia un po’ perso la sintonia con l’opinione pubblica, che ha paura?
«La gente non ha veramente paura dei migranti. Ha paura della solitudine, dell’insicurezza, di un mondo globale che la sorvola, che toglie valore al lavoro. La paura si supera con il dialogo. E comunque la vera opposizione al Papa non è sui migranti; è sulla dottrina».
Quando ha conosciuto Bergoglio?
«A Roma, prima del conclave del 2005, e mi fece una grossa impressione. Così andai a trovarlo a Buenos Aires».
Chi viene alle mense di Sant’Egidio?
«Sempre meno stranieri, sempre più italiani. Padri che con la separazione hanno perso la casa. La povertà è un vortice: dormi in macchina, puzzi, perdi anche il lavoro. La grande malattia è essere soli».
Non le manca un figlio?
«No. Ho avuto una vita molto piena, non ho rimpianti».
Ha avuto i suoi amori?
«Chi non li ha avuti?».
Come immagina l’Aldilà?
«Non me lo so ancora immaginare. Penso che quel Dio che ha liberato Israele dall’Egitto non ci abbandonerà nelle gole della morte».