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 2018  febbraio 04 Domenica calendario

La guerra dopo i giochi

L’ambasciata americana è una fortezza protetta da un poliziotto ogni dieci metri. Gli agenti sudcoreani hanno il volto coperto dai passamontagna, contro il gelo di Seul. A meno di 200 chilometri dalla capitale, intorno a Pyeongchang sede delle Olimpiadi invernali, sono stati schierati almeno 50 mila soldati, per proteggere i Giochi più militarizzati della storia. La tregua olimpica è assicurata dall’improvviso dialogo aperto da Kim Jong-un, che ha inviato 22 atleti a competere e 500 majorettes, artisti, lottatori di taekwondo, giornalisti, accompagnatori vari (e diverse spie) a partecipare alla festa. 
Il «pugno» di Trump Ma governi e politologi già si chiedono che cosa succederà dopo i Giochi. Donald Trump non crede nelle buone intenzioni di Kim, vuole convincerlo o costringerlo alla denuclearizzazione e ha bollato la Nord Corea come «regime depravato». A Washington circola da giorni una formula: «bloody nose». Racchiude la tentazione dell’Amministrazione di colpire con un pugno (militare) il Maresciallo, quel tanto che basti per fargli sanguinare il naso. Uno «strike limitato», come dicono i militari, per neutralizzare siti missilistici e infrastrutture. Non sono neppure escluse azioni «coperte» affidate alle forze speciali da tempo nella penisola, compresi i Navy Seals che hanno ucciso Osama. E poi ancora incursioni affidate alle armi cibernetiche. Misure che dovrebbero impaurire la gerarchia, magari eliminando qualche alto dirigente. Alla Casa Bianca stanno ancora discutendo. 
Un gruppo di funzionari spinge per l’attacco, il presidente è stanco di attendere, non vuole ripetere l’errore dei suoi predecessori. Ma i suoi consiglieri frenano. Il segretario alla Difesa Mattis – l’uomo che risolve i problemi – e il capo di Stato Maggiore Joseph Dunford insistono per la via diplomatica. Il capo dello staff, H.R. McMaster, condivide l’opzione negoziale però ritiene sia necessario mandare un messaggio che scuota il leader del Nord.
Da inizio gennaio Kim è comparso in pubblico solo tre volte: una nel discorso di Capodanno nel quale ha aperto al dialogo olimpico con il Sud, poi in un paio di fabbriche. Chi cataloga e analizza le mosse del Maresciallo avverte che da quando è al potere, dal dicembre 2011, nell’unica volta in cui si era «nascosto» così a lungo, nel gennaio 2013, poi Kim era riapparso per ordinare un test atomico. 
Parata militare Il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha fatto benissimo ad accettare il dialogo con Kim, perché ha assicurato come minimo la tregua olimpica. Però ora tutti i segnali indicano che il leader si prepara a tornare in campo l’8 febbraio con una grande parata militare a Pyongyang. Proprio il giorno prima dell’apertura delle Olimpiadi. Foto satellitari mostrano decine di migliaia di soldati che si esercitano con almeno 120 pezzi d’artiglieria e tank. 
Il direttore della Cia, Mike Pompeo, sostiene che Kim viene informato male sulla reale determinazione dell’Amministrazione americana a ottenere con le buone o le cattive la denuclearizzazione e «si avvicina sempre più» allo scontro armato. Il problema per Pompeo è che «i consiglieri di Kim non hanno il coraggio di dire la verità al Maresciallo supremo, perché sanno che le cattive notizie a Pyongyang non farebbero bene alla loro salute». Se è così, Kim forse potrebbe tentare una provocazione di troppo, partire per quella «missione suicida per sé e per il regime» di cui ha parlato più volte Trump. 
Da anni si dice che gli americani nonostante il loro strapotere non potrebbero attaccare il regime dei Kim perché lungo il 38° Parallelo sono schierati almeno 11 mila pezzi d’artiglieria e lanciarazzi nordcoreani protetti da grotte, pronti a fare una strage a Seul, con la sua popolazione di circa 25 milioni di civili. Ma gli strateghi del Pentagono stanno elaborando nuovi piani.
Il generale Merrill McPeak, ex capo di stato maggiore della US Air Force ai tempi della campagna contro l’Iraq, ha appena spiegato che uno strike aereo risolutivo è tecnicamente possibile. I cannoni nordcoreani sono in caverna, ma non sono al sicuro dalle nostre nuove bombe a guida Gps, dice il generale. «Quando sganci un ordigno da 2 mila libbre con una precisione di 10 metri dal bersaglio, come minimo blocchi il portellone del rifugio e metti fuori combattimento gli artiglieri», dice McPeak e aggiunge: «Abbiamo le coordinate di tutte le loro postazioni, non sfuggirebbero». Stesso ragionamento per i bunker personali di Kim. A Guam, l’Air Force ha schierato i B2 dotati delle MOP, ordigni in grado di sventrare i rifugi sotterranei.
L’ex comandante delle forze speciali sudcoreane, Chun In-bun, dice invece che in Nord Corea sarebbe peggio che in Iraq e Afghanistan, uno strike aprirebbe una guerra d’attrito. Ed esperti statunitensi sottolineano poi come il tanto decantato scudo anti missile Usa abbia fatto per la seconda volta cilecca in pochi mesi accrescendo i timori sulle possibilità di fermare una rappresaglia affidata a ordigni a lungo raggio.
Tunnel a Seul La gente di Seul non crede alla guerra, è abituata a convivere con le minacce nordcoreane. E poi la capitale è ben preparata: ci sono circa 3 mila tunnel antiaerei, ogni fermata della metropolitana porta anche il cartello con la scritta rifugio in coreano e «shelter» in inglese, per turisti e business community. C’è anche un lungo reticolo di mercati sotterranei utilizzabile come riparo. Nel weekend questi mercati-rifugio ci sono apparsi deserti, mentre era affollata la torre Lotte, 123 piani di vetro e acciaio con le migliori griffe del lusso internazionale. Una guerra, un attacco limitato non può succedere, dice la ragione. Ma potrebbe esserci un errore politico o di valutazione, come insegna il caso delle Hawaii.