La Stampa, 4 febbraio 2018
Nella giungla del Guatemala la metropoli perduta dei Maya
Tutto quello che crediamo di sapere sulla civiltà maya andrà forse riscritto dopo la scoperta di un bacino archeologico nascosto nella giungla del Guatemala. Grazie a una nuova tecnologia laser che sta rivoluzionando la ricerca di antiche civiltà, un gruppo di studiosi americani, europei e guatemaltechi ha esplorato un’area di 2100 chilometri quadrati senza muovere un passo nella foresta, registrando i dati da un aereo. Quello che gli scienziati hanno visto riprodotto sui loro computer sembrava davvero incredibile, ma era invece una realtà meravigliosa, la scoperta che ogni archeologo vorrebbe fare.
La zona di Petén, al confine con il Messico e il Belize, è già nota per i siti archeologici di Tikal, Holmul e Uaxactún, insediamenti che risalgono forse a 3000 anni fa, ma che hanno avuto il massimo splendore fra il 300 a.C. e l’800 d.C.. Grazie al Lidar, un dispositivo che invia a terra segnali di luce e ne registra il riflesso, gli archeologi hanno potuto guardare sotto le foglie e i rami che coprono una vastissima area della regione, scoprendo circa 60.000 edifici di pietra sconosciuti: il bacino di Petén non era dunque abitato da 5 milioni di persone, come si è sempre creduto. Erano almeno il doppio e forse il triplo, e vivevano in una gigantesca metropoli organizzata come le città moderne.
Il laser ha rivelato migliaia di strutture, tra le quali piramidi alte fino a 30 metri, strade sopraelevate e acquedotti, complessi terrazzamenti per l’agricoltura, possenti mura e torri di difesa. La rete viaria è quella che ha impressionato di più i ricercatori: le strade sono rialzate, probabilmente per fare defluire l’acqua nelle stagioni delle piogge, e sono tutte collegate fra loro come autostrade. Una civiltà che non usava la ruota né animali da soma ha spostato migliaia di tonnellate di pietra per costruire l’agglomerato urbano più vasto dell’antichità: si calcola che in certe aree vi fossero due abitanti per metro quadro, più che nella Pechino di oggi.
Gli archeologi hanno notato che il 95% della terra residua era coltivato a terrazze, con un sistema di irrigazione sofisticato e molto efficiente. La capacità dei Maya di modificare il paesaggio per adattarlo alle esigenze di una vasta comunità li ha davvero impressionati. «I nostri pregiudizi occidentali ci avevano portato a credere che ai Tropici non potessero fiorire grandi civiltà», ha detto Marcello Canuto, archeologo della Tulane University di New Orleans e collaboratore di National Geographic Explorer. «Pensavamo che ai Tropici si andasse solo per morire, ma questa scoperta ridimensiona la nostra supponenza». I Maya di Petén erano il doppio di tutti gli abitanti dell’Inghilterra medievale, ma vivevano decisamente meglio. La loro civiltà, dicono ora gli scopritori dei nuovi insediamenti – forse esagerando un po’ -, non aveva nulla da invidiare a quella greca o a quella dell’impero cinese.
Secondo Francisco Estrada-Belli, della Boston University, ci vorrà un secolo per analizzare tutti i nuovi dati rilevati grazie al Light Detection and Ranging: «Questa tecnologia», ha detto, «segna un nuovo inizio per lo studio di antiche civiltà, esattamente come il telescopio Hubble ha segnato un nuovo inizio per lo studio dell’universo». Stephen Houston, docente di Archeologia alla Brown University del Rhode Island, è sicuro che quanto ritrovato in Guatemala costituisca «il più grande passo avanti nella ricerca sui Maya da 150 anni». L’area di Petén era finora famosa per il sito di Tikal, una vasta area archeologica circondata dalla giungla pluviale e diventata un’attrazione turistica per i suoi imponenti edifici, tra i quali spicca il Tempio del Giaguaro eretto fino a 48 metri con una ripida struttura verticale.
Il team di ricercatori che ha lavorato con National Geographic e con la Fondazione Pacunam, istituita per preservare il patrimonio culturale del Guatemala, si godrà ora la popolarità che sarà garantita dai giornali e dalla trasmissione di un documentario il prossimo 8 febbraio. Subito dopo comincerà il faticoso lavoro sul campo, alla ricerca di nuove spiegazioni sulla civiltà mesoamericana e sulle ragioni della sua scomparsa nel 900 d.C., improvvisa e ancora avvolta nel mistero: l’ipotesi più nota è quella di una prolungata siccità che ha distrutto tutte le coltivazioni. Nella giungla gli archeologi troveranno però anche migliaia di buchi scavati nel terreno e rilevati dal laser: la metropoli dei Maya è rimasta per secoli nascosta a tutti ma non ai tombaroli, gli unici interessati a non parlarne mai.