La Stampa, 5 febbraio 2018
I Giochi parlano anche africano. Italia, numeri da superpotenza
Il mondo diventa elastico quando si infila nei Cinque Cerchi e ora che siamo all’appello delle Olimpiadi pure l’Italia si scopre un po’ più grande. Gli Stati Uniti superpotenza fanno ombra a tutti, numeri maxi e la spedizione più ciccia di sempre: in ogni Paese, in tutta la storia dei Giochi. Ci si lamenta perché candidarsi a ospitare l’evento è un debito, ma ogni edizione batte dei record, se a Sochi c’erano 2858 iscritti alle gare, qui si sale e non ci sono ancora le cifre definitive perché ai 2923 nomi a registro mancano ancora i russi ribelli.
Sono Olimpiade da scoprire, i russi non si chiamano così, sono indipendenti, protetti da un vistoso acronimo che ne dichiara la provenienza: Oar, gruppo in via di definizione dopo il ribaltone del tribunale dello sport. Non hanno la bandiera però sono la terza nazione nella classifica delle squadre più consistenti. La soluzione trovata dal Cio sembrava stare bene a tutti e più il gruppo Oar (Olympic Athletes From Russia) si dilata più il senso di giustizia si restringe. Intanto si conta.
Centodue gare
Solo gli Usa e i padroni di casa della Corea del Sud, con gli ingressi omaggio, schierano atleti in tutti i 15 gli sport che definiscono le 102 gare. Agli azzurri però manca solo l’hockey e se ci si guarda intorno si scopre di stare con i Paesi che ai Giochi invernali si fanno da sempre rispettare: Germania, Canada, Svizzera, persino la Norvegia, che con la Germania e gli Stati Uniti si gioca la testa del medagliere, sono meno eclettici di noi. È pura statistica, ma a quattro giorni dal via ci fa sentire importanti anche se PyeongChang 2018 non è una competizione ristretta, non è un dialogo fra pochi abituati a stare al freddo, una sfida privata tra chi è abbastanza ricco da permettersi le specialità tecniche, abbastanza al Nord per trovare neve e ghiaccio.
L’Africa schiera otto nazioni, un primato e un orgoglio di seconda generazione. Non si tratta più solo di esserci, di acciuffare una qualificazione in qualche strano modo per finire ultimi e anche se tanti sono figli dell’Africa sparsi dal destino ad altre latitudini tutti vogliono trainare il continente dentro le Olimpiadi invernali.
Radici riscoperte
Il ghanese Frimpong ha appeso la bandiera nella sua stanza al Villaggio, ha scritto «partiamo da qui», da un punto su una mappa. Lui è nato in Ghana poi ha cercato di seguire la madre in Olanda ed è stato respinto più volte prima di raggiungerla. È tornato in Ghana, ha studiato in America, è diventato cittadino olandese e stava per trasformarsi in atleta oranjie ma un infortunio lo ha fermato e lui ha cambiato sport, ha ritrovato la patria e ora si presenta con dieci tifosi al seguito, tutti imbandierati.
Le ragazze nigeriane del bob sono state in tournée prima del via, le conoscono e le aspettano tutti, hanno avuta una festa di partenza con il grazie di uno stato che scopre con loro queste Olimpiadi. Erano velociste e ora si lanciano sul ghiaccio. Anche l’Eritrea si presenta da debuttante con Shannon Obganai, nato in Canada, genitori rifugiati a cui ora vuole regalare un moto di fierezza. Loro, sradicati, riscoprono le radici grazie al figlio. Malitiana Clerc è una francese del Madagascar, nata in Africa, adottata dall’Europa non ha mai perso contatto con i suoi veri genitori, con la sua terra che oggi rappresenta in slalom. Marocco, il Kenya sugli sci, il Togo dell’italiana Alessia Afi Dipol, con una storia da globetrotter dietro gli affari di papà e un giro strano che l’ha portata a essere un pezzo di questa dinamica Africa che vuole spazio al freddo.