La Stampa, 5 febbraio 2018
Porto il mio caos nel velluto rosso dei teatri italiani. Levante racconta il suo nuovo tour
Per i due mesi da trascorrere a Milano avevo portato con me tre valigie, la chitarra acustica e una tastiera. Quando è finito X Factor ho lasciato Milano con sei valigie, la chitarra acustica, la tastiera e un baule pieno di voglia di tornare a Torino. Non c’è niente da fare, gira e rigira ritorno a guardare la Mole dalla finestra del salotto, a camminare a piedi nudi nelle mie stanze un po’ sabaude.
Per giorni e giorni ho sentito l’eco del countdown prima della diretta, la voce del direttore di palco che mi invita a uscire dal camerino. Dieci minuti e si inizia. Dobbiamo microfonare. C’è un lancio da fare per i social. Vuoi salutare le ragazze? Hai pensato a come presentare questo brano? Sei agitata? In Rete dicono di te. Tr... Incompetente. Il rossetto è favoloso. Che brava che sei.
Per giorni ho sentito l’eco delle cose brutte, quando ci sono io davanti allo specchio le cose belle non le vedo mai. Poi ho ripreso a suonare, in casa è arrivato il pianoforte, il palazzo intero ha capito che ero tornata. Buongiorno, è tornata! Sono tornata sì perché ho il coraggio di andare via, di tornare e poi di andare ancora via. Lei che è rimasta qui cosa mi racconta?
Nelle mie stanze ho creato nuove scalette per salire sui palchi di alcuni dei teatri più belli d’Italia, per far girare il caos con un suono nuovo, meno muscolare, più intimo, intenso nel suo essere umile. Avevo bisogno di mostrare la musica, non i muscoli. In sala prove è arrivato un violoncello e con lui un violino e attorno s’è fatto silenzio. Hanno taciuto i synth e le distorsioni.
Ripartire dalla semplicità
Abbiamo spogliato i brani d’ogni orpello tornando alla fase embrionale, quella in cui con chitarra e piano, compongo le musiche. Siamo ripartiti dalla semplicità, senza il desiderio di sorprendere… ed è stato comunque stupefacente ritrovarsi dinanzi a brani vestiti in tutt’altro modo e ugualmente potenti.
Ho cercato nel mio passato recente i brani che non cantavo da tempo, di cui a stento ricordavo gli accordi, per farli rinascere nei teatri, perché nei club sarebbero stati mangiati dalla fame di rumore, di salti e di grida quando invece desiderano essere sussurrati, tra le poltrone di velluto rosso, tra le orecchie attente a cui nulla sfugge. Cantare le parole scritte otto anni fa, dedicate alla mia malinconia, pregne di rabbia post adolescenziale, è stato come riguardare un album fotografico e ritrovare una purezza e un’ingenuità che credo di aver seminato lungo la strada, mai più ritrovate. Che bello sguardo semplice, che immaginario strano. Quanto mi manco.
A rompere la nostalgia del passato è stata la mia voce, molto più preparata e all’altezza dei giorni in cui ho scritto queste vecchie storie. Non è storia vecchia la necessità di fare musica, di andare in giro numerosi su un furgone e attraversare l’Italia in lungo e in largo. L’Europa anticiperà il caos, con la scaletta già proposta nel 2017 nei club. Poi arriverà lo Stivale. Si è gridato al sold-out ma senza megafoni, lo abbiamo gridato come si fa per la gioia, come si fa esultando per un set vinto a pallavolo, come Valentino che va forte e arriva primo e tutti in piedi sul divano. Senza megafoni ma forte insomma. Lo abbiamo gridato per dire grazie di cuore a chi mi segue da tanto tempo e riconosce l’importanza del caos in teatro, di questo passo in avanti che era necessario fare.
Sempre al mio fianco Alessio Sanfilippo alla batteria, nella sua versione più delicata, Mattia Bonifacino al basso e anche al contrabbasso, Alessandro Orefice a tutti i tasti bianchi e neri ed Eugenio Odasso alle chitarre. Sono arrivati gli archi, al violoncello Lucia Sacerdoni e al violino Tommaso Belli. Al lavoro di riarrangiamento, nuove dinamiche e grandi crescendo, c’è Antonio Filippelli, produttore di Nel caos di stanze stupefacenti e immancabile.
Ho chiesto alla band uno sforzo maggiore, anche nei cori, nelle controvoci. Abbiamo deciso di sfruttare ogni cosa che sul palco potesse evocare musica, anche il battito di un palmo sul petto. Abbiamo pensato che servisse pure l’ambiente, perché il luogo stesso è musica. Il pensiero vola ovviamente al controllo dell’emozione, perché in teatro c’è tanto silenzio da sentire il battito di un cuore che corre a mille e non può avere il fiatone.
Non mi resta che guardarmi i piedi e ricordare ancora quanta strada si è fatta, adesso riesco a vederla da qui e sono certa che senza le persone che mi hanno tenuta per mano, queste altezze non sarebbero mai arrivate… E non ho le vertigini.