Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  febbraio 05 Lunedì calendario

La ninfa napoletana uscita da un baule. Si chiamava Adriana, morì di tubercolosi nel ’44 a 26 anni

Chi era la misteriosa Adriana a Capri del futurista Enrico Prampolini, pochi tratti essenziali per un guizzo di bellezza e di evanescenza? Una donna reale, un simbolo? Nessuno più lo sapeva, nel secondo dopoguerra. Era una specie di fantasma, proprio come una delle protagoniste del romanzo di Anna Maria Ortese Il porto di Toledo, storia di due donne che si disputano molto riservatamente un uomo inquietante. Una era certamente l’autrice, sull’altra c’erano solo supposizioni. Luca Clerici, nella sua biografia della scrittrice, ricorda un articolo dell’Ortese uscito sul Corriere della Sera nel novembre del 1944, in ricordo di un’amica, Adriana Capocci di Belmonte, morta giovanissima di tubercolosi: «Ella emanava una tale grazia, un così meraviglioso potere, che tutti, parenti, amici, servi, conoscenti, ne rimanevano presi e incantati per sempre».
Da Moravia a Fortini
Ora si è scoperto che la donna del libro è anche quella del ritratto, una giovane e bellissima aristocratica, Adriana Capocci, trascorsa come un sogno, tra Napoli e Capri, senza lasciare traccia. Tutti coloro che si muovevano a lei, invece, di tracce ne avevano lasciate, e parecchie, solo che erano confinate nella soffitta dell’aristocratico palazzo Spinelli sul Decumano, edificio dove visse a lungo un’altra importante scrittrice napoletana come Patrizia Ramondino. C’era un baule di lettere, un «cascione» come si dice a Napoli, riemerso per caso dalle stanze di famiglia; un’erede, Silvana De Luca, lo ha messo a disposizione di un amico scrittore, Sergio Lambiase, e quel giacimento sconosciuto è diventato un libro, Adriana cuore di luce (Bompiani, pp. 256, € 17).
È un affresco di storia culturale napoletana (e non esclusivamente: scrivevano alla Capocci tra gli altri, Prampolini e Moravia, Paolo Monelli e un giovanissimo Franco Fortini – che si chiamava ancora Franco Lattes) alla vigilia della guerra, fra eleganze e tradimenti, slanci e compromissioni col regime, spie, soldati, artisti e guru. Con Moravia a Capri ci fu un bacio («la sua faccia era come di un serpente, fredda e infida e faceva già male prima del bacio» annotò Adriana, che tuttavia pensò per un momento di poterlo amare), con Prampolini nulla di nulla, se non una morbosa adorazione da parte dell’artista, e, va da sé, il ritratto. «Cara Adriana», le scriveva nel ’40, «avete qualche foto molto selvaggia e primitiva che possa contribuire al nascente grande ritratto vostro destinato a fare epoca?» Il «cascione» ha restituito tantissime foto, dove la giovane donna appare, splendida, irresistibile, come una ninfa in infinite pose e luoghi, oltre al suo diario.
Ma chi era Adriana Capocci? Una giovane aristocratica inquieta, un’incantatrice. Una ninfa napoletana. Eredita dalla famiglia, che aveva avuto rapporti amicali con il grande sanscritista Michele Kerbaker e col Nobel Rabindranath Tagore, la fascinazione dell’India; studia orientalistica a Roma con Giuseppe Tucci. Ma già a 14 anni aveva conosciuto, a Capri, il nipote dello scrittore indiano, Soumendranath, personaggio dalla vorticosa e spregiudicata vita pubblica, e ne era stata nello stesso tempo respinta e stregata.
Un amore sbagliato
Con lei artisti e intellettuali si mettevano a nudo. Fortini ad esempio (dopo averlo incontrato nel ’37 ai Littoriali della Cultura, assieme a Guttuso, Trombadori, Alessandro Parronchi, Michelangelo Piacentini, ne descrive il «profilo conciso e corto, con i suoi occhi blu che si restringono ai lati in un sorriso e la bocca spessa e disegnata e il piccolo naso») le manda pagine che sono il tipico autoritratto dello scrittore da giovane: «È un bel pomeriggio: entra il sole dalla grande finestra della mia stanza minuscola. Intorno, libri, libri, carte, la macchina da scrivere, qualche cravatta, e, sotto il vetro sul quale scrivo, due riproduzioni a colori di Francesco Guardi, qualche fotografia. Ecco cosa ho fatto in quest’anno e mezzo».
Adriana era una straordinaria levatrice di confidenze e confessioni. Una volta tuttavia il suo istinto la ingannò: e fu nell’innamoramento per un personaggio dalle mille pieghe, tutte assai tenebrose, come lo storico Aldo Romano. Vero è che se ne innamorò anche l’amica Maria Ortese, che lo descrisse nel Porto di Toledo come «duro, segreto, distante», e qualcosa dunque intuì: perché Romano era un informatore dell’Ovra, doppiogiochista e spia, autore, sotto il nome di «Cesare», di dettagliati e malevoli rapporti sui fratelli Rosselli. Adriana Capocci non visse abbastanza per capire chi era l’oggetto del suo a
mour fou. La tubercolosi se la portò via nel 1944, a 26 anni. Scriverà di lei la Ortese, che non ebbe la forza di andare al funerale: «Io l’avevo amata, e la musica dei suoi passi, come la luce dei suoi sguardi, non mi sarebbero uscite facilmente dal cuore, ch’ella aveva ferito così spesso con la soverchiante bellezza dei suoi doni».