Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2018
Il pane fresco si perde in un impasto di leggi
«Vorrei un chilo di pane». Una richiesta semplice e quotidiana. Ma siamo sicuri di essere veramente consapevoli di ciò che chiediamo? Di solito ci si aspetta di ricevere pane fresco, appena sfornato. Non è, però, così automatico. Non esiste,infatti, una definizione univoca di «pane fresco». La avrebbe dovuto stabilire un decreto, che si aspetta da oltre dieci anni. Così che a decidere la fragranza di un alimento indispensabile sulle nostre tavole sarà un provvedimento che definire “surgelato” non è un eccesso.
Questo vuoto normativo ha favorito il fai-da-te del legislatore regionale e ora sul concetto di «pane fresco» esistono idee diverse. Il fatto è che oltre a una questione di materie prime, c’è pure problema di tempi, ovvero di ore che intercorrono dal momento in cui si inizia la produzione e quello in cui la si termina. Ci sono, poi, le ore che trascorrono da quando il pane viene sfornato a quando viene messo in vendita. Su tale tempistica si è creata una divergenza di vedute: se fino a qualche anno fa nessuno dubitava sulla freschezza e semmai esisteva (ed esiste) solo una molteplicità di nomi per indicare uno stesso tipo di pane, oggi la fragranza è diventata questione di orologio. E il rischio è che il lentissimo decreto – forse in dirittura d’arrivo – finisca per ingarbugliare la situazione.
Continua pagina 8 Antonello Cherchi Continua da pagina 1 Ma andiamo con ordine. Nel 2006 un decreto legge 223 liberalizza l’attività di panificazione. Cancellati i vecchi riferimenti, bisogna, però, introdurne di nuovi: la nuova legge affida il compito a un decreto interministeriale (ministero dello Sviluppo economico, delle Politiche agricole e della Salute, previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni-Province autonome) da approntare entro il 12 agosto 2007. Quel decreto dovrebbe introdurre, in conformità con il diritto comunitario, la definizione di “panificio” e di “pane fresco” e adottare quella di “pane conservato”.
L’obiettivo è soprattutto mettere il consumatore nelle condizioni di conoscere ciò che acquista e mangia. Tanto più che in questi anni è diventato più difficile capire se quello che si compra, in particolare nei supermercati, è pane fresco artigianale o sfornato partendo da una base surgelata.
Il decreto, però, stenta a prendere una forma definitiva, complice il concerto tra i tre ministeri, l’intenso carteggio tra il nostro Paese e l’Unione europea e il faticoso tavolo di trattativa tra i ministeri e i panificatori artigianali e quelli industriali.
Il ritardo si accumula e nel 2015 il Parlamento decide di correre ai ripari. Viene presentato alla Camera un disegno di legge che contiene ciò che il decreto avrebbe dovuto dire. E anche di più. Infatti, la finalità del Ddl è, oltre rendere i consumatori più informati, tutelare il patrimonio del pane artigianale, che conta oltre 200 specialità. In questo modo, secondo il disegno di legge, si restituisce competitività a un settore che vale 7 miliardi di euro, che conta 25mila imprese – soprattutto a conduzione familiare – che mediamente sfornano cento chili di pane al giorno ciascuna e danno lavoro a 400mila persone. La proposta, però, riesce a conquistare solo il via della Camera e poi si ferma per la fine della legislatura.
Nel frattempo il decreto continua il suo faticoso e lentissimo cammino. A fine novembre dello scorso anno viene sottoposto al Consiglio di Stato per il parere. Il testo è, per stessa ammissione del ministero capofila (quello dello Sviluppo economico), frutto di un compromesso. Per il Consiglio di Stato, però, il problema non è tanto quello, ma il fatto che alcuni passaggi del provvedimento non sono chiari. Non lo è, in particolare, il criterio per valutare quando il pane può dirsi “fresco”: si tratta dell’intervallo di tempo tra l’inizio della lavorazione e quello della messa in vendita, che il decreto individua in 72 ore. Trascorso quel tempo, il pane perde la qualità di “fresco”. È lo stesso parametro utilizzato dal disegno di legge.
Secondo il Consiglio di Stato quel criterio «non appare pienamente sovrapponibile ad altre disposizioni regionali che disciplinano la denominazione di “pane fresco”». Per esempio, sottolineano i giudici, il Friuli Venezia Giulia ha stabilito con normativa regionale un termine di 24 ore tra la fine della lavorazione e la messa in vendita.
Non si tratta dell’unica richiesta di chiarimento: anche le definizioni di “pane conservato” e di “pane preimballato” avrebbero bisogno di delucidazioni. Per tutti questi motivi il decreto viene rispedito al mittente. Poco prima di Natale, il provvedimento ritorna al Consiglio di Stato con i chiarimenti richiesti, ma i dubbi dei giudici non vengono totalmente fugati. Riguardo alla qualificazione di “pane fresco” c’è, secondo lo Sviluppo economico, compatibilità tra le nuove norme nazionali e quelle regionali, perché le prime interessano la durata del processo di lavorazione, mentre le altre si riferiscono al tempo entro cui il pane deve essere venduto una volta sfornato. Un cervellotico riparto di competenze che discende dall’attuale Titolo V della Costituzione. Resta, però, il fatto che il ritardo del decreto ha indotto molte Regioni ad «adottare – scrive il Consiglio di Stato nel parere di fine gennaio – disposizioni disomogenee», generando «una situazione particolarmente complessa».
Il parere è lapidario: il decreto «destinato a inserirsi in un simile contesto già di forte frammentazione, dettando principi in più contesti difformi da diverse disposizioni regionali» finisce per rendere il settore «di difficile comprensione e di ancor meno facile approccio». È il federalismo della freschezza del pane.