Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2018
Il vento tedesco che spinge le buste paga
Negli Stati Uniti ripartono i salari, ai massimi dal 2009, e anche in Europa sta prendendo corpo una dialettica sociale della “pancia piena”. Lo zeitgeist, lo spirito del tempo, non a caso soffia in Germania e dalla Germania dove l’Ig Metall (3,6 milioni di lavoratori rappresentati) ha deciso di togliere dalla polvere lo sciopero di 24 ore per chiedere aumenti del 6% quando l’inflazione è poco sopra l’uno. Era da 15 anni che il sindacato tedesco non faceva ricorso all’arma conflittuale più estrema e adesso chiede anche una svolta radicale nella flessibilità degli orari. Un po’ il vecchio mito francese, ma in versione grande coalizione a maggior gradazione Spd.
In Francia, invece, i danni delle 35 ore vogliono lasciarseli alle spalle e semmai Emmanuel Macron rilancia la legge che assicura gli sgravi fiscali alle ore di straordinario già tentata da Nicolas Sarkozy, ma nel momento in cui la recessione non consentiva di far girare al meglio gli impianti che, semmai, rallentavano al calare degli ordinativi. Un precedente, dagli esiti non brillantissimi anche per gli stessi motivi, c’è stato anche in Italia. Sono due segnali europei di una stagione nuova per le relazioni industriali che finalmente possono, almeno nella parte più dinamica del Vecchio Continente, dedicarsi alla distribuzione del dividendo della crescita. L’economia globale è ripartita e con essa anche quella europea. E, inevitabile, torna l’appuntamento con la produttività.
Visto dall’Italia, dove la campagna elettorale si concentra facile sui braccialetti di Amazon (inapplicabili peraltro) e sfuoca la discussione, il segnale tedesco è ancora un lusso, anche se la manifattura dà segnali di potente risveglio e di duratura cavalcata nella crescita. Qui l’emergenza occupazione non è certo terminata e l’urgenza della creazione di posti di lavoro non consente di concentrare l’attenzione e le risorse solo sul tema del salario e delle condizioni di impiego. La dialettica sociale della “pancia piena”, propria di una Germania con tassi di disoccupazione ormai solo fisiologici, non è cosa per l’Italia. Tuttavia il prezioso tavolo negoziale cui siedono Confindustria e sindacati per la revisione della struttura contrattuale non può non tenere conto delle nuove condizioni di contesto europeo. Innanzitutto nel definire le soglie per i contratti nazionali lasciando margini più ampi per la contrattazione di secondo livello dove redistribuire gli incrementi di produttività.
Aleggia il salario minimo, tema spesso evocato in questa campagna elettorale, una misura che creerebbe uno squilibrio nell’architettura contrattuale e, soprattutto, un deficit profondo nel potere negoziale delle parti. Se oggi il 20% dei salari è considerato ai limiti della soglia di povertà è perché non è regolata la rappresentatività delle parti e questo lascia spazi a negoziati e a soggetti border line. Regolare la rappresentanza e garantire ai contratti nazionali di lavoro la forza dell’erga omnes è l’altro modo per assicurare una forma di salario minimo senza distruggere il sistema di relazioni industriali che in Italia è parte integrante di una cultura produttiva positiva. Sarebbe un salario minimo creato dal mercato e probabilmente risulterebbe anche più alto di qualsiasi assegno imponibile per legge (in genere, dove esiste, è il 40% della retribuzione media nazionale e in Italia non potrebbe superare i 6 euro).
Se a questo si aggiungesse una vera strategia di abbattimento del cuneo fiscale la partita dei salari troverebbe davvero un nuovo campo di gioco.
La svolta tedesca, con ogni probabilità, darà il segnale di quella nuova centralità della remunerazione del lavoro utile a far ripartire anche l’inflazione buona, quella cui guarda la Bce per orientare la sua politica di rientro dalla stagione di allentamento monetario.
Le interconnessioni della manifattura create dall’Industria 4.0 nelle catene globali del valore dove anche l’Italia è, in molti settori altamente competitivi, legata a doppio filo con la Germania avranno un riflesso anche nelle modalità di remunerazione del fattore lavoro. E forse, come mai prima d’ora, si sta profilando una cornice europea delle retribuzioni dettata dalle condizioni di mercato e non da regole predefinite.
Se questo è vero, per l’Italia tuttavia si profila ancora una volta una polarizzazione tra settori e tra aree del Paese. Una parte della manifattura ormai corre secondo standard europei, i servizi sono ancora poco competitivi e la pubblica amministrazione resta un fattore di freno alle sviluppo. E la stessa presenza di imprese di successo non è certo uniforme nel territorio. Proprio per questo il nuovo impegno dovrà essere quello di rendere disponibile e negoziabile il “tesoretto” della produttività là dove esiste anche grazie anche al nuovo sistema di premi fiscali ancora in fase di rodaggio, ma presumibilmente molto efficace.
Redistribuire la produttività effettiva sarà anche l’unico vero modo per creare le condizioni di una vera equità sociale finanziariamente sostenibile.