il Giornale, 2 febbraio 2018
L’ultima nuova frontiera è il ricchissimo «Artico»
Il «Paese delle ombre lunghe» è quello dove il sole è basso all’orizzonte, il riverbero del ghiaccio ne moltiplica il bagliore e l’inclinazione dei raggi allunga le immagini sulla superficie gelata. Lo abitano gli Inuit, ovvero gli uomini, come essi stessi si definiscono; gli altri, quelli che non vivono lì, ma nei «Paesi delle ombre corte», dove il sole brilla alto e l’aria è calda, non possono considerarsi tali. Gli somigliano, ma sono un’altra cosa: da cui guardarsi. Con disprezzo più o meno celato, i «non uomini» chiamano infatti gli Inuit con un altro nome: Esquimesi, cioè «mangiatori di carne cruda». Nell’isola di Banks, estremo ovest dell’arcipelago artico canadese, già vent’anni fa centrotrenta Inuit raccontarono agli studiosi dell’Iisd, Istituto internazionale per lo sviluppo sostenibile, la loro lenta agonia. Il surriscaldarsi della Terra che scioglie il ghiaccio e non si sa più quando si può viaggiare, il divieto di cacciare foche e orsi polari, alla base dell’economia di sostentamento, che provoca suicidi e tensioni...
Ancora negli anni Cinquanta del Novecento c’era nell’Artide, la terra degli Inuit, una densità di quattro abitanti per 2.500 chilometri quadrati, la temperatura minima era di 80 gradi Celsius sotto zero, il sole a mezzogiorno non superava i 27 gradi di inclinazione e gli 11 a mezzanotte. Fu allora che uno scrittore svizzero, Hans Ruesch, ambientò lì il suo Top of the World, la storia di una famiglia Inuit, i suoi miti e le sue consuetudini, la lotta per l’esistenza, la caccia e la pesca unici lavori virili, l’incontro con l’uomo bianco e quindi l’inizio della fine. Per chi non era mai andato oltre lo stereotipo degli igloo e dei nasi strofinati in segno di saluto, quel libro di Ruesch fu uno choc. C’era tutta l’animalità della condizione umana quando è legata alla natura e alle sue leggi: la limitazione demografica mediante l’uccisione dei vecchi inutili e dei neonati in sovrannumero, praticata normalmente per adeguare la popolazione alla capacità di sostentamento della regione, gli amuleti contro le insidie del destino (un orecchio di renna per proteggere dalla sordità, un occhio di foca per evitare il malocchio, un gabbiano disseccato per aver fortuna nella pesca...) e quelli per diventare un bravo cacciatore. Papik, uno dei protagonisti, porta «nella giubba il proprio cordone ombelicale disseccato, all’età di un anno era stato costretto a mangiare una testa di cane per diventare saggio, al polso ha legato un pene di foca e nella manica pezzetti di pelle d’orso cuciti». Fra Inuit e mondo animale, l’unica regola era quella della sopravvivenza. Non esistevano bestie domestiche, non ci si affezionava. La legge era quella del più forte e dell’utilità: ciò che non serviva o che dava fastidio andava eliminato, la pietà era un sentimento pericoloso. Quando Asiak, un’altra delle protagoniste del libro di Ruesch, è incinta, la madre la ammaestra: «Guarda se è maschio o femmina. Se è un maschio, puliscilo con la tua lingua, poi ungilo di grasso; solo qualche sonno più tardi potrai lavarlo con l’urina. Se invece è una femmina, la devi subito strangolare. Perché durante il periodo dell’allattamento molte donne non concepiscono altri figli, e quindi, per allevare una femmina inutile tu ritarderesti l’arrivo di un maschio, il quale non viene mai troppo presto, perché la vecchiaia giunge rapidissima, e c’è bisogno di un maschio giovane che procacci il cibo. Devi ucciderla subito, altrimenti ti affezioni. Hai capito, piccina?».
Costruito su un equilibrio feroce quanto assoluto, la civiltà Inuit ha retto finché è rimasta a sé stante. L’espulsione dalla comunità era la sola pena conosciuta da chi non aveva capi, codici e prigioni, ma peggiore della morte per chi considerava la compagnia umana il più prezioso perché il più raro dei beni. Gli Inuit festeggiavano gli arrivi, mai le partenze: le separazioni sono tristi.
A settant’anni da quel mondo barbarico descritto da Ruesch, l’ultimo grido in materia risuona ora in Artico (Neri Pozza, pgg. 219, euro 13,50), di Marzio G. Mian, reportage sulla spietata quanto definitiva corsa neocoloniale che ha gli Inuit come vittime sacrificali, e per teatro l’unica area del mondo non ancora sfruttata, ma che nasconde risorse pari al valore dell’intera economia americana. Già ai tempi di Ruesch, agli Inuit era vietato di uccidere più di tre foche l’anno, mentre i bianchi ne sterminavano razze intere di cui prendevano solo le pelli, lasciando la carcassa ai gabbiani e tralasciando di rendere le ossa al mare. Già allora alcol, tribunali e codici di comportamento ne avevano cominciato a minare le fondamenta. Come per i pellerossa d’America, un sistema di vita incompatibile con le leggi del progresso e del consumo è stato sempre più ridotto ai margini, condannato all’estinzione o all’integrazione, che è poi la stessa cosa, come testimonia il più alto tasso di suicidi al mondo, una vera e propria strage: «In rapporto alla popolazione, è come se ogni anno si togliessero la vita 60mila persone» scrive Mian. Nel «Paese delle ombre lunghe» Ermenek uccideva una foca e poi le spruzzava in bocca della neve sciolta: «Le foche hanno sempre sete, dato che vivono in acqua salsa, e adesso lo spirito di questa foca riferirà alle altre il buon trattamento ricevuto, mandandole a questo foro per ricevere a loro volta un sorso d’acqua dolce». Gli unici figli della foca in fondo sarebbero loro, gli Inuit, ma non sono politicamente corretti...
Artico, naturalmente, non è solo la tragedia della sua popolazione indigena. Mian racconta di un nuovo Eldorado che paradossalmente però minaccia già di sparire, «il ghiaccio che si assottiglia e poi svanisce», epicentro di eventi che minacciano di sconvolgere gli equilibri mondiali in questo inizio di millennio. Perché «meno Groenlandia» significa «più mare», «meno bianco» sta per «più energia solare che non viene rimbalzata, ma assorbita e aggiunge caldo al caldo».
Costruito come un’inchiesta sul campo, la Groenlandia e l’Alaska, il mare di Barents e lo Stretto di Bering, Artico racconta altresì «la battaglia per il Grande Nord», ovvero il Great Game politico-economico-ideologico che ha come obiettivo la conquista «dell’ultima delle ultime frontiere». Vi partecipano la Cina, gli Stati Uniti, la Russia, giunta con Putin a considerare l’Artico il suo «mare nostrum» e a riempirlo di spie, basi e testate nucleari... Più in generale, osserva Mian, il Nord sembra ormai essere la nuova «bussola del contemporaneo. Oggi ad affacciarsi al nuovo Artico ci sono nazioni sofisticate che prosperano invidiate e copiate dal mondo. Comandano tutte le classifiche che contano, sono le più felici, le più ricche, le più giuste, le più sostenibili». Pochi mesi fa, il premier scozzese Nicola Sturgeon ha definito le «sue» isole Orcadi le future «Singapore dell’Artico»... In cucina trionfa lo stile New Nordic, «la cool Scandinavia seduce il mondo, dà la linea su tutto quel che conta, esporta petrolio, grande letteratura, sedie comode, ma anche tanto conformismo». La Svezia, scrive ancora Mian, «è una sorta di Ikea delle idee contemporanee» e la nuova frontiera lì perseguita è la gender neutrality, una società «oltre i sessi come li abbiamo conosciuti» e dove la scuola elementare ha per nome Egalia, rottura definitiva del concetto maschio-femmina.
A rileggere oggi, a vent’anni dalla sua uscita, Barrow’s Boys, di Fergus Fleming, il racconto entusiasmante e disincantato delle spedizioni polari che nell’Ottocento l’Ammiragliato britannico mise in cantiere (In Italia l’ha pubblicato lo scorso anno Adelphi, I ragazzi di Barrow), molte volte grottesche, spesso disastrose, sempre eroiche nel loro combinato disposto di sofferenza e tenacia, si può misurare la strada percorsa fra chi in fondo voleva stare solo «a cavallo del mondo», limitarsi a saltargli in groppa, e chi oggi su quel mondo intende galoppare, illudendosi di non poter mai essere disarcionato. Le seduzioni geo-politiche di Faust.