il Giornale, 2 febbraio 2018
Enel stacca l’elettricità alle «miniere» di Bitcoin
Le criptovalute non sono solo altamente speculative ma anche molto «inquinanti». Così se da un lato Facebook è pronta a valutare e, eventualmente, a respingere gli annunci pubblicitari legati a Bitcoin, Ethereum, Ripple &C tanto per citare solo alcune delle più note criptovalute, Enel ha dichiarato di non nutrire interesse per la vendita di energia indirizzata all’attività di mining. Attualmente, la domanda mondiale di energia per il mining (ossia la creazione) di criptovalute si aggira attorno ai 36 terawattora, ma alla fine del 2018 è stimata aumentare fino a 125-140 TWh, qualcosa come lo 0,7% del consumo globale, pari a quanto consuma mediamente l’intera Argentina in un anno.
Il mining insomma consuma molta energia elettrica, perché i pc che alimentano le complesse fasi di questa attività e che permettono le transazioni sono tanti e dunque consumano parecchio.
Basta pensare che l’elettricità utilizzata in una singola transazione in Bitcoin potrebbe alimentare una casa per un mese. Inoltre tutte le auto elettriche Tesla in circolazione al momento, più o meno 280mila, hanno bisogno di circa 1,3 tWh di elettricità secondo alcune stime. E dunque già adesso fare mining di Bitcoin costa 30 volte l’energia necessaria per muoverle tutte.
Secondo uno studio per produrre un solo Bitcoin ci vuole una spesa compresa tra i 3mila ed i 7mila dollari. Attualmente, un bitcoin vale meno di 10mila dollari ossia la metà rispetto allo scorso dicembre, quando il prezzo sfiorava i 20mila dollari. Quanto alla produzione la maggiore server farm di criptovalute si trova in Mongolia. Dove si trovano interi capannoni, occupati da 25mila computer dedicati alla risoluzione dei calcoli crittografati che generano i Bitcoin.
L’operazione, altamente energivora, si svolge grazie all’elettricità prodotta da centrali a carbone, così come accade in un numero sempre più crescente di «miniere» di criptovalute che stanno spuntando in Cina. Il risultato è un aumento sensibile delle emissioni di Co2. Ed è per questo che Enel ha voluto puntualizzare che, avendo «avviato un chiaro percorso di decarbonizzazione l’uso intensivo di energia per il mining di criptovalute è da considerare una pratica non sostenibile e non in linea con il modello di business che il gruppo sta realizzando».
In un tale contesto, l’aumento della produzione di energia da fonti rinnovabili, dall’idroelettrico al fotovoltaico, potrebbe dare una mano alla produzione di criptovalute. L’incertezza però resta. Ieri il Bitcoin è sceso sotto i 10mila dollari dopo le parole del ministro delle Finanze indiano Arun Jaitley, che ha auspicato una stretta regolatoria nel Paese. Jaitley ha detto che il governo «non considera le criptovalute una moneta legale» e che «adotterà tutte le misure per eliminare l’uso di questa moneta legato a finanziamenti di attività illegali o come sistema di pagamento». Dello stesso avviso anche altri Paesi, come la Corea del Sud, anche se la stessa Samsung sarebbe interessata a produrre chip per il mining. Anche il ministro delle Finanze italiano, Pier Carlo Padoan ha puntualizzato che «il sistema deve essere regolato per evitare bolle, perché prima o poi esplodono e fanno male».