Libero, 1 febbraio 2018
«Amico mio, mi salvo la pelle. E se non ce la fai, pazienza»
Ha lasciato il suo amico lì, a settemila metri di altitudine, in quella truna, piccola tenda appoggiata sul ghiaccio. Lui sdraiato dentro, sfinito, il gelo a irrigidire la barba rossa e la vista ormai azzerata, in quelle condizioni può essere conseguenza di un edema polmonare. L’ha messo comodo per quanto possibile, il necessario per la sopravvivenza a portata di mano, poi l’ha salutato, «vado a cercare aiuto, vedrai che torniamo a prenderti. Non mollare!». Ma lei sapeva. Sapeva che non l’avrebbe più rivisto vivo. L’ha salutato con la mano, si è allontanata nel bianco accecante delle nevi perenni. Non c’era altra scelta, non poteva esserci. Intorno, l’Himalaya imponente a soffiare dall’alto. Addio.
Ci sono cose che uniscono fors’anche più dell’amore. La sofferenza condivisa, il sacrificio comune in vista dell’obiettivo. Retorica? Ma per niente, provate a immaginare, e non c’è bisogno d’essere alpinisti. Scalare una delle montagne più alte e pericolose del mondo. In due, una donna e un uomo. Soli. Insieme nella bufera, a quaranta gradi sotto lo zero e un’altitudine che per respirare devi allargare a forza i polmoni, il fiato che ghiaccia uscendo dalla bocca. E la fatica, la fatica immane, questa sì inimmaginabile per chi non ha vissuto un’esperienza del genere. La vita dell’uno nelle mani dell’altra, e viceversa. Alla fine arrivi in vetta, ce l’hai fatta, «ce l’abbiamo fatta!». Ma la discesa, da lassù, non è meno complicata. Può essere mortale. Lo è stata.
OLTRE I LIMITI
Élisabeth Revol ha 37 anni e la montagna nell’anima. Francese della Drôme, terra di Alpi e Galli e gente che vive di roccia e pascoli. Gente dura. Ha scalato le vette più alte del Sudamerica e del Nepal, poi il Pakistan. Ma la sua sfida, la sua fissa è sempre stata quella vetta dell’Himalaya. Il Nanga Parbat, la «montagna nuda», la nona cima più alta del mondo. Tristemente famosa per l’estrema difficoltà delle sue vie, dalla prima ascensione del 1953 ci han lasciato la pelle più di sessanta alpinisti. «E allora perché correre questo rischio?». È la sfida, la voglia di andare oltre i limiti, di fare cose che nessuno ha mai fatto, e se non la capite non è il caso di sforzarsi, non ci arriverete mai.
La sua idea era alpinisticamente eroica: raggiungere gli 8.125 metri della vetta in inverno. E come compagno d’impresa ha scelto Tomek, quel polacco dal viso simpatico e il passato burrascoso, eroina e vita da tossico e poi due anni di rieducazione e sei in India ad aiutare i bimbi malati di lebbra. Tomek Mackiewicz, 42 anni, due figli da una moglie e due figli dall’altra. Per lui la montagna aveva invece rappresentato l’ascesa verso la redenzione, la rinascita, alla larga dai patentini delle “federazioni sportive” che l’avevan sempre trattato come uno svitato, «un matto innocuo», così ne parlavano. Però di arrampicare era capace, eccome.
Élisabeth e Tomek, una per l’altro. Già ci avevano tentato fra il 2015 e il 2016, a salire in cima al Nanga Parbat. Quest’anno ci hanno riprovato. E ci sono riusciti, cazzo, ci sono riusciti! Fino in vetta!
I problemi sono iniziati durante la discesa. Giovedì scorso Élisabeth ha chiamato con il telefono satellitare, ha gridato che Tomek stava male, molto male. Non vedeva quasi più, aveva i sintomi di un principio di assideramento, le energie ormai finite, ed erano ancora a 7.200 metri. E qui la scelta: restare con lui, aspettando dei soccorsi che fin lassù non sarebbero mai potuti arrivare. Oppure lasciare lì il compagno e proseguire, nella speranza di salvarsi.
SCELTA OBBLIGATA
Ha scelto la seconda. È arrivata al campo base a seimila metri, mentre la comunità mondiale degli alpinisti organizzava la missione di salvataggio. Gli elicotteri pakistani l’hanno prelevata lassù, ora è in ospedale in Francia, rischia di perdere le dita del piede sinistro per il freddo patito. Arrivare fino a Tomek non è stato possibile.
Giusto qualche giorno fa, grazie agli studi classici da poco iniziati dal figliolo, chi scrive ha avuto l’occasione di rileggere la frase di Eschilo: morire gloriosamente è meglio che salvarsi. Può esser vero, ma morire inutilmente o è un errore o una follia. La salvezza di Élisabeth è dovuta coincidere con la morte di Tomek. Lei lo penserà sempre, ammirando il cielo che, di un azzurro impareggiabile, domina anche le vette più alte. Come il segno di una resa invincibile.