Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  febbraio 02 Venerdì calendario

Cermis, vent’anni dopo. la strage cancellata

Oltre al pilota, a bordo c’erano sempre altre tre persone che si dedicavano a far funzionare questi apparati hi-tech. L’aereo però mostrava il segno dei tempi, imponeva una manutenzione costante e una concentrazione eccezionale ai comandi: il numero di perdite per malfunzionamento o errori continuava a crescere.
Anche per questo il colonnello Muegge imponeva al suo stormo di rispettare tutte le disposizioni: «Si vola “by the book”, seguendo il manuale; tolleranza zero per chi trasgredisce». Muegge diceva di non sopportare gli sbruffoni da Top Gun. Un mese prima il capitano Richard Ashby durante un decollo in formazione aveva bruciato i colleghi sulla pista, superandoli a tutto motore. E il colonnello gli aveva fatto un cazziatone, mettendo a verbale l’ammonizione. Ashby però era ritenuto uno tra i migliori ufficiali e tra poche settimane sarebbe comunque stato promosso, passando sui caccia intercettori. La missione che il 2 febbraio 1998 veniva pianificata in un ufficio di Aviano sarebbe stato il suo ultimo volo sul Predatore: in quadruplice copia erano state dettagliate rotta, altezza, velocità, consumo di carburante, aeroporti dove dirigere in caso di problemi. Il programma prevede una sortita di addestramento a bassa quota – nome in codice Easy- 01 – della durata di 46 minuti. Il tragitto sembra il depliant di un’escursione turistica sul meglio delle Alpi: Dolomiti, Brunico, Ponte di Legno, Lago di Garda, Marmolada. Accanto al trentenne Ashby ci sarebbe stato il navigatore Joseph Schweitzer, suo coetaneo. Seduti dietro, chiusi davanti agli schermi radar con solo due finestrini di lato, il tenente William Raney, 26 anni, e un ospite, Chandler Seagraves, ventottenne capitano del reparto che tra pochi giorni li avrebbe rimpiazzati nella sorveglianza sulla Bosnia.
Le proteste delle autorità italiane
Nessuno dice all’equipaggio che le autorità italiane avevano chiesto di evitare le missioni raso terra. C’era stata una circolare dell’Aeronautica Militare, emanata il 21 aprile 1997 e protocollata come Sma/ 175. L’aria era affollata di caccia d’ogni paese, mobilitati per il conflitto balcanico: centinaia di jet che sfrecciavano di giorno e di notte spaventando la popolazione con l’urlo dei reattori. C’erano già state 73 proteste, con 13 denunce formali: «Telefonavamo all’aeroporto di Verona. Ci chiedevano: “Di che colore erano gli aerei? Che codici avevano?” Sembrava ci prendessero in giro». In quel periodo poi la neve prometteva valanghe e il rombo dei motori avrebbe potuto provocare l’inferno nel momento di punta della stagione sciistica, tanto che la centrale dell’Aeronautica di Monte Rocca dirama il divieto di abbassarsi sotto i 600 metri. Per impedire quei sorvoli era stata promulgata persino un’inedita quanto effimera legge della Provincia di Trento, fortemente voluta dall’assessore al Turismo Francesco Moser: sì, proprio lui, l’ex campione di ciclismo che aveva battuto ogni record e conosceva bene fascino e rischi della velocità.
La circolare Sma/175 era stata trasmessa anche al quartiere generale della Nato e pure al colonnello italiano che controlla il traffico da Aviano. La base è americana, ma il cielo è italiano: tocca a noi autorizzare l’uso dello spazio aereo e stabilire le regole. In realtà gli stormi statunitensi hanno continuato a seguire le loro procedure, senza mai venire fermati. D’altronde il programma del volo Easy- 01 viene approvato alle 21 e 57 del 2 febbraio dal comando italiano di Martina Franca, il bunker sotterraneo alle porte di Taranto che coordina tutte le operazioni sulla Penisola: c’è scritto che la quota sarebbe stata metà di quella indicata nella circolare, ma nessuno obietta.
La mattina del 3 febbraio 1998 lo stesso aereo va sulla Bosnia con un altro equipaggio. Quando atterra alle 13.20 viene segnalato un guasto al misuratore di gravità: i tecnici lo sostituiscono e verificano che ogni strumento del velivolo sia perfettamente funzionante. Il capitano Ashby e i suoi commilitoni in quel momento sono riuniti per il briefing: ripassano le fasi del volo, annotano i parametri previsti sulle carte, discutono i consumi di carburante, verificano le possibili varianti. Intorno alle due salgono a bordo del Predatore e alle 14 e 12 la torre autorizza l’accensione dei motori. Alle 14.30 precise c’è il via libera per il decollo. Ma il jet resta fermo. Arriva di corsa un’auto, un aviere scende e lancia un borsello a un altro militare che lo passa al pilota: dentro ci sono «un paio di videocassette». Solo a quel punto, il tettuccio viene chiuso e si parte, con sei minuti di ritardo: mancano pochi secondi alle 14.36.
Scompaiono subito dai radar, perché le montagne oscurano i sensori delle basi, anche le comunicazioni radio tacciono: l’aereo è un fantasma. Punta invisibile su Ampezzo, poi devia su Brunico in Alto Adige. Sotto ci sono le Tre Cime, la meraviglia delle Dolomiti. Nuova virata, verso la Lombardia fino a Ponte di Legno, lungo la valle del Brennero accarezzando l’Adamello. Toccano più volte i mille chilometri all’ora, sforando i limiti di 100- 150 chilometri; soprattutto infrangono la quota minima e scendono a soli cento metri dalle case. Quindi il lago di Garda. Da Riva si dirigono sulla Marmolada: è trascorsa mezz’ora quando entrano nella Valle di Fiemme a soli 260 metri dal suolo. «È passato talmente vicino al terrazzino che non sono neppure riuscita vedere l’ala per intero», ha testimoniato Barbara Demattio, una baby sitter di Castel di Fiemme: «I vetri hanno tremato, il bimbo si è immediatamente svegliato e messo a gridare».
La Val di Fiemme è un paradiso di boschi secolari, custoditi con orgoglio dalla sua comunità, incastonato nelle dolomiti trentine. In quel febbraio generoso di neve e di sole gli alberghi sono pieni: ai tradizionali turisti italiani ed europei si sono aggiunti i nuovi sciatori dell’Est, che sull’Alpe Cermis si godevano oltre venti chilometri di piste. Si raggiungono con una funivia divisa in due tratti. Il primo parte alle porte del paese trentino di Cavalese, scavalca la valle del torrente Avisio e arriva a mezzacosta al Doss de Laresi: millecinquecento metri sospesi nel vuoto, anche a 180 metri d’altezza. Due grandi cabine gialle da quaranta posti si alternano nel percorso. L’impianto era stato ristrutturato dopo il dramma del 1976, quando un guasto e una manovra errata avevano sganciato una delle “gondole” – così le chiamano gli stranieri –, uccidendo 42 persone: solo i locali ormai ne avevano ricordo.
Nel primo pomeriggio del 3 febbraio l’Alpe si stava svuotando e in diciannove si mettono in fila per tornare a Cavalese con la funivia. C’è Ewa Strzelczyk, 37 anni, che accompagna il figlio tredicenne Filip: il marito Peter si era stirato un muscolo e da medico aveva preferito rimanere in camera evitando altri sforzi. Vengono da Gliwice, un borgo polacco che per primo ha colto le opportunità economiche della fine del Comunismo: Ewa è una musicista e dirige il teatro locale. Anche Sonja Weinhofer, 22 anni, ama la musica ed è iscritta al conservatorio: è con Anton Voglsang, 35, entrambi di Vienna. In disparte c’è la ventenne olandese Danielle Groenleer. Si aggiunge il club di sci tedesco “verde- bianco” di Mohsdorf, un quartiere di Burgstadt, un pezzo della Sassonia che ha dimenticato in fretta i tempi bui della Ddr. Sono professori e dipendenti comunali, con parenti al seguito: per la quarta volta soggiornano all’Hotel Rio Bianco di Panchia, dove si fanno notare perché si presentano a cena con l’abito buono, eleganti come a un gala. In genere sfruttano le piste fino alla chiusura ma quel giorno smettono prima: hanno deciso di riposarsi e ricominciare dopo il tramonto sull’unico impianto illuminato in notturna. Si separano: sei vanno giù con gli sci, sette invece preferiscono la cabinovia. Egon Uwe Renkewitz è con la figlia ventiquattrenne Marina Mandy e il suo fidanzato Michael Potschke, un amore sbocciato durante le lezioni a Mannheim e le nozze fissate per il prossimo Natale. Li seguono Annelie e Harald Urban. L’insegnante Dieter Frank Blumenfeld va con loro, salutando la consorte. Jürgen Wunderlich ha dimenticato la bottiglia di the e la moglie Rita lo insegue per consegnargliela. Prima di allontanarsi, la donna scambia commenti sulla sbadataggine dei mariti con due signore altoatesine di Bressanone, in coda per tornare a valle: «Pure i nostri scordano sempre tutto…». Edeltraud Zanon Werth, 56 anni, – che tutti chiamavano Traudi – e Maria Steiner Stampfl, 61, sono per la prima volta in vacanza da sole: per una vita avevano gestito i loro negozi, uno di abbigliamento e l’altro di video, appena venduti. Adesso i figli sono grandi e potevano godersi la pensione: «Finalmente possiamo tirare un po’ il fiato». Avevano lasciato i mariti a casa e si erano prenotate una camera con vista sulle Dolomiti al resort di Veronza.
La comitiva più allegra è quella belga, cinque giovani partiti da un sobborgo di Bruges, amici dai tempi dei boy scout, sempre pronti a mettersi a cantare. Rientrano da un’escursione a quota 2500: hanno poco meno di trent’anni e la vita gli sorride. Sebastiaan Van den Heede ha organizzato la vacanza per tutti con la fidanzata Rose- Marie Eyskens, che da poco ha lasciato Anversa per vivere insieme a lui: Sebastiaan è un ingegnere assunto dalla Volvo mentre Rose- Marie si è laureata in legge e sta facendo la pratica da notaio. Stefaan Vermander, anche lui ingegnere, lavora per Andersen Consulting mentre Hadewich Antonissen è psicologo. Ma l’istrione è il ventottenne Stefan Bekaert detto Bekie: ha una passione umanistica per la conoscenza, con una laurea in antropologia e una seconda in arrivo in archeologia. Parla correttamente in latino e vuole fondere le due discipline. Biondissimo, ha trascorso due anni nel cuore del Congo per studiare i riti taumaturgici della tribù Sakata: tre mesi prima ha presentato la tesi di dottorato, tanto brillante da ottenere un finanziamento dell’Unione Europea per proseguire la ricerca. Suona ogni strumento: piano, clarinetto, chitarra e sta imparando il sassofono, dono dalla fidanzata per il dottorato. Con la sua band mescola jazz, blues e melodie africane. Disegna vignette in continuazione, trasformando ogni situazione in caricatura, anche nei momenti di quella settimana bianca. «Sembrava interessato a tutto. Vederlo alla chitarra era uno spettacolo, chinato sulla sedia, i piedi sul tavolo, le mani che correvano sulle corde. Suonava come studiava, come disegnava, come giocava a calcio: in modo naturale e con enorme entusiasmo».
Alle 15.11 l’impiantista Marcello Vanzo li fa salire nella “sua” cabina e chiude le porte. È nato lì 56 anni prima e, tranne che per la leva negli alpini, ha sempre vissuto a Cavalese. Quello non era il suo turno: dopo il pranzo al ristorante Baita con i colleghi, si era offerto di sostituirne uno. Ed eccolo ancora al lavoro, al suo posto di manovratore per guidarli lungo il chilometro e mezzo che li separa dalla stazione.
Partono, lentamente, sospesi alla fune. Fuori però succede qualcosa. L’aria si riempie di un rombo cupo, cattivo; il suono amplificato dalle pareti di roccia si gonfia e ruggisce penetrando ovunque. È il jet americano. Tutti a Cavalese alzano lo sguardo al cielo, ma nella cabina il rumore del motore smorza quel boato e lo rende distante. Il Predatore non ha seguito il piano di volo: doveva restare sopra la valle invece c’è entrato dentro. Doveva restare più in alto di trecento metri, invece si abbassa sotto i 150 metri. E corre troppo, è a mille chilometri all’ora. A quella velocità la funivia è invisibile. La cabina invece è un punto giallo, che si materializza all’improvviso agli occhi del capitano Ashby: “Cazzo!”. Il suono dei reattori si deforma in un lamento angosciante: l’aereo ha centrato il cavo; l’acciaio cerca di resistere, scava un solco nell’ala che però ha una potenza inarrestabile. E poi la fune cede, aprendosi a trecento metri dalla stazione.
Nella cabina avvertono quella forza apocalittica che scuote ogni cosa. Capiscono. La caduta nel nulla per 111 metri dura secondi infiniti. Urlano terrorizzati, si abbracciano. La gondola gialla si schianta sul crinale, poi si capovolge e precipita a valle. Un urto mostruoso che stritola quei venti corpi, annullandoli tra le lamiere. «Ho riconosciuto mia moglie da una catenina che le avevo regalato per Natale», dichiara Josef Stampfl, il marito di Maria venuta da Bressanone per la sua prima vacanza con un’amica.
La rotta su Aviano
L’aereo invece è soltanto ferito. Nel cockpit suona la sirena d’allarme, l’indicatore mostra che stanno perdendo benzina, il pilota si aggrappa alla cloche ma fatica a tenere il controllo. «Lanciamoci», gridano da dietro, pronti a far scattare i seggiolini eiettabili. «Non ancora», risponde il comandante. Prendono quota: più in alto vai, più hai speranza di cavartela. Stabilizzano il velivolo e verificano i danni: «Ce la possiamo fare, rotta su Aviano». Avvisano la base di prepararsi a un atterraggio d’emergenza, senza dire niente della cabinovia. Ancora sei minuti, temendo che il combustibile si incendi e i serbatoi esplodano. Poi calano sulla pista, con una scia di liquido che cola dall’ala, e si fermano. «Tutti fuori!».
Il capitano Raney si catapulta giù, così rapido da rompersi la caviglia. Anche Seagraves lo segue a perdifiato. Ma nei sedili sul davanti nulla si muove. I due si allontano, i mezzi dei pompieri stanno arrivando ma Ashby e Schweitzer restano dentro. Aspettano ancora lunghi minuti prima di scendere. Quando i loro piedi toccano terra, la missione Easy- 01 è finita.
Il disastro è subito noto. Le responsabilità anche: l’aereo ha seminato frammenti nella valle. Adesso tocca alla Giustizia. Già, ma quale? Quella italiana? Quella americana? Entrambe? Il braccio di ferro comincia in meno di un’ora. La procura di Trento vuole sequestrare l’aereo ma il Predatore è un segreto militare: quelle strumentazioni per la guerra elettronica sono l’arma più sofisticata dell’arsenale statunitense, impensabile lasciarle in mano a stranieri e civili. Dal Pentagono non mostrano dubbi. Il Trattato di Londra del 1951 che regola i rapporti dei Paesi Nato è in gran parte segreto ma ha un caposaldo noto e consolidato: la competenza in questo caso è americana. «Anche voi italiani quando le Frecce Tricolori si schiantarono sulla folla dello show di Ramstein, una base statunitense in territorio tedesco, avete preteso di condurre le indagini e i processi. Bene, questo incidente spetta a una nostra commissione».
Venti morti però sono un dramma che può sconvolgere ogni regola. Perché c’è tutta una nazione infuriata, che non vuole accettare la follia di quella strage, di quelle vite massacrate per un wargame. Dal Quirinale Oscar Luigi Scalfaro scandisce parole di fuoco: «Non si gioca con la vita». Il premier Romano Prodi parla di «piena responsabilità americana». E a colloquio con il presidente Bill Clinton si mostra determinato: senza giustizia, cambierà il nostro atteggiamento riguardo alle basi Usa. Lo ha poi spiegato sotto giuramento il colonnello Thomas Blickensderfer, capo delle operazioni aeree dei Marines: «Ci venne riferito che Clinton chiamò il presidente del Consiglio italiano. Clinton sperava di sentirsi dire “sono cose che succedono”, invece Prodi gli fece capire che c’era il rischio che gli americani non avrebbero più potuto operare sul territorio italiano».
La bravata del Predatore poteva azzerare la strategia della Casa Bianca. Scomparsa l’Unione Sovietica, pacificato il Medio Oriente, Clinton aveva fatto dei Balcani il fulcro della sua politica di potenza: dopo avere imposto la pace in Bosnia, si preparava al confronto finale con Belgrado, che sarebbe scattato con il conflitto del Kosovo un anno dopo. Il conto alla rovescia era cominciato proprio quella settimana, con un monito del segretario di Stato Madaleine Albright. Senza gli aeroporti della Penisola, però, ogni azione nella ex Jugoslavia sarebbe diventata impossibile. C’è poi un altro fattore, al momento ancora opaco, che forse ha spinto il presidente ad evitare ulteriori grane sul fronte italiano: esattamente una settimana prima della strage, aveva dovuto rispondere alle accuse sui rapporti con Monica Lewinsky, pronunciando la frase «non ho avuto relazioni sessuali con quella donna» che poi lo ha portato a un passo dall’impeachment.
Gli americani cambiano linea, chinando la testa e assumendosi la «totale responsabilità». Vengono forniti dati alla procura di Trento e promessa collaborazione, il Pentagono preannuncia raffiche di incriminazioni. Alla luce dei risultati, però, più che una svolta pare una mossa tattica. Perché il nodo della questione rimane intatto, seppur rinviato: gli Usa e soltanto gli Usa giudicheranno i colpevoli. Le aperture diplomatiche e i capi cosparsi di cenere placano in parte l’opinione pubblica italiana e incentivano il disinteresse della nostra classe politica. C’è un “partito atlantico” guidato dal ministro degli Esteri Lamberto Dini che invita «al rispetto delle alleanze» e smorza i toni del confronto. Ancora una volta, la crisi internazionale fa lentamente emergere un Paese diviso, con governo, parlamento, generali, magistrati incapaci di coordinare gli sforzi. Iniziative e dichiarazioni si accavallano e disturbano, con effetti nulli o addirittura controproducenti. Come la richiesta formale di rinunciare alla giurisdizione Usa, che di fatto ribadisce la competenza americana. «Il problema, per dirlo chiaro e semplice, è quello della sovranità italiana sul territorio», scrive Eugenio Scalfari. L’ultimo tentativo di ottenere almeno un’istruttoria condivisa, considerando come Nato e non solo come statunitense la missione del Predatore, tramonta quando il comandante militare dell’Alleanza atlantica Wesley Clark, lo stesso generale che poi guiderà la guerra del Kosovo, sancisce che quel volo era solo americano. È il 13 marzo 1998. Da allora le inchieste italiane si spengono lentamente, le nostre magistrature ordinaria e militare depongono gradualmente le armi legali e si rassegnano al processo negli States. Tutti convinti che non sarebbe stato comunque possibile lasciare impunito un crimine così grave. Ma il compito di fare giustizia resta nelle mani dei Marines, con i loro detective e con la loro corte marziale.
L’errore nella quota di volo
Le colpe del pilota e del navigatore sembrano dimostrate: non dovevano volare a quella quota. Se il loro aereo era invisibile ai radar terrestri, non era sfuggito agli schermi dei grandi quadrireattori Awacs che vigilano H-24 sulla frontiera balcanica: i loro strumenti registrano i jet a bassa quota in un raggio di 400 chilometri, con ventitré specialisti di diverse nazionalità della Nato testimoni delle violazioni di altezza, rotta e velocità condotte nella missione del 3 febbraio. Sono gli elementi oggettivi che confermano le dichiarazioni degli abitanti della valle e quelle estrapolate dagli strumenti dell’aereo assassino: il quadro è completo.
Nei faldoni degli investigatori statunitensi cominciano a materializzarsi pure altri sospetti. All’indomani della strage, nella gigantesca casa madre dell’aviazione dei Marines di Cherry Point, nella Carolina del Nord, il colonnello Stephen Watters ordina ai piloti del suo stormo di far sparire tutti i video girati un anno prima durante la permanenza ad Aviano. Si scopre che anche lui ne aveva personalmente registrato uno, filmandosi mentre sfrecciava con il suo caccia tra le Alpi ben sotto la quota minima.
La vicenda fa nascere un’ipotesi, raccapricciante. Anche l’equipaggio del massacro stava girando un video? Gli investigatori mettono in fila le anomalie. C’è il ritardo nel decollo da Aviano per farsi consegnare “un paio di videocassette”: a bordo del Predatore però viene sequestrata una telecamera con dentro un solo nastro vergine. E poi c’è il mistero dei minuti cui pilota e navigatore restano nella fusoliera dopo l’atterraggio, mentre gli altri due correvano via temendo l’esplosione del carburante. Perché?
Sì, durante la missione sulle Alpi che ha ucciso venti persone stavano girando un video. Ma tacciono, anche con i loro comandanti. Tre degli uomini di Easy- 01 sono vecchi camerati; il capitano Seagraves no. Appartiene a un altro reparto, non aveva mai volato prima con loro. È lui l’anello debole. Il navigatore Schweitzer lo avvicina: «Dimentica la cassetta». Seagraves, per rimorso o per paura, accetta però di rispondere alle domande degli inquirenti in cambio dell’immunità: «I due davanti hanno girato un video. Non posso dire se lo facevano anche al momento dell’impatto, da dietro non si vedeva. Hanno sostituito il nastro prima di uscire dall’aereo». Dov’è finita la registrazione? «Ho consigliato ad Ashby di liberarsene».
Non si sa quando gli inquirenti abbiano avuto la certezza del video- souvenir, probabilmente entro un mese dalla strage: l’esistenza viene formalizzata solo quattro mesi dopo con gli interrogatori del 18 giugno 1998, in cui si mette nero su bianco la sostituzione della cassetta. Non si fa nessun cenno al contenuto delle immagini scomparse. Difficile che al Pentagono non si rendano conto della pericolosità di quella rivelazione: può essere devastante, confermando i peggiori pensieri sul comportamento delle forze armate americane. «Ci avrebbero fatto passare come cow boy killer, che hanno ucciso venti persone per filmare acrobazie mozzafiato tra le Dolomiti», dirà un anno dopo il navigatore Schweitzer. Non solo. Il Trattato di Londra prevede una sola eccezione alla competenza statunitense: quando l’atto criminoso non rientra nell’attività di servizio del militare. Se si fosse potuto collegare la disattenzione dell’equipaggio all’uso delle telecamera, l’intero processo forse sarebbe rimasto in Italia. È una scoperta che può ribaltare la situazione, vanificando la tregua raggiunta con Roma. Ma resta nascosta nei fascicoli degli inquirenti, sostanzialmente occultata tra i tecnicismi procedurali.
L’inchiesta dei Marines
L’inchiesta principale dei Marines si chiude il 30 giugno 1998, chiedendo la Corte Marziale per il pilota Ashby e per il navigatore Schweitzer, mentre gli altri due vengono prosciolti. Le accuse possono valere due secoli di carcere: violazione dei propri doveri nella condotta del volo, strage colposa e omicidio colposo, danneggiamento. La ricostruzione è severa, senza se e senza ma. Quei venti morti sono colpa loro, perché hanno manovrato “in modo aggressivo”, superando i limiti di quota e velocità più volte: lo scontro con il cavo quindi non era frutto di un singolo errore, ma di tutta la gestione scellerata della missione. Il 10 luglio c’è il rinvio a giudizio. Solo il 30 agosto però viene formulata l’incriminazione per il depistaggio, ossia l’ostacolo alle indagini, per la rimozione della cassetta, da giudicare in un dibattimento separato. Le vicende si dividono e così si neutralizzano, perché il contenuto del video scompare dalla scena del disastro.
Il primo processo si celebra dal 7 dicembre 1998 nella grande installazione di Camp Lejeune, sempre nella Carolina del Nord, invasa per l’occasione da reporter e televisioni. Il pubblico ministero è durissimo: «Il capitano Ashby ha violato la regola “scritta con il sangue” di non scendere sotto i 300 metri. È incorso in pericoli ingiustificabili quando ha manovrato quel velivolo a mille all’ora dentro la valle di Cavalese. Dopo 20-23 secondi da quando è entrato nella valle, inizia a manovrare il suo aereo. A quel punto, si è messo in una situazione dalla quale non può uscire, perché sta procedendo alla massima velocità, alla minima altitudine, e sta manovrando. A quel punto non c’è più niente che possa fare. Si trova su un missile che sta slittando proprio in quella direzione, e invece di rialzarsi, va ancora più in basso».
L’inquisitore fa poi leva sulla videocassetta rimossa per descrivere il cinismo dei due imputati: «Sanno che hanno colpito una funivia. Sanno che hanno tagliato dei cavi. Hanno contattato Aviano, dicendo che avevano sofferto un danno strutturale, che stavano tornando con dei problemi. Dov’è la chiamata via radio in cui dicevano che avevano appena visto una funivia, che avevano colpito dei cavi, che qualcuno doveva chiamare i servizi di emergenza in quella vallata? Hanno scambiato i nastri perché non vogliono che voi sappiate quello che è successo su quell’aeroplano».
Per la difesa invece siamo davanti a «un terribile incidente che è avvenuto durante l’addestramento e niente di più». L’avvocato, un ex colonnello dei Marines pluridecorato, dissemina dubbi. Parla del malfunzionamento dell’altimetro – paventato dal pilota ma smentito dalle indagini – esibendo nuovi elementi. Descrive le carenze nelle mappe Usa dove non è segnalata la funivia; la non chiara esposizione dei vincoli sulle altezze nei briefing e infine si concentra sull’orografia complessa della valle, tutti elementi già bocciati durante l’istruttoria. La morte di venti persone viene ridimensionata: è una fatalità, frutto di circostanze imprevedibili negli ultimi otto secondi di volo.
L’assoluzione
Nella tarda serata del 3 marzo 1999, dopo sette ore e mezzo di camera di consiglio, arriva il verdetto di assoluzione. Clamoroso e inappellabile. Non ci sono motivazioni: la strage diventa un incidente, la morte di venti persone si trasforma in una pura casualità nella routine aviatoria. Per i familiari è uno shock; i giornali italiani, tedeschi e belgi titolano “Vergogna”.
Dentro l’aula della corte marziale praticamente tutti erano militari: giudici, giurati, periti, avvocati, procuratori, testimoni. E fuori di lì, la Storia era cambiata rispetto al giorno maledetto del Cermis. Da quattro mesi la tensione con la Serbia era alle stelle e l’armata americana si stava schierando per il colpo finale nei Balcani. Davanti alla sede del processo manipoli di veterani del Vietnam manifestavano: «Quei piloti sono innocenti, giù le mani dai nostri marines». In tv alcuni senatori repubblicani contestavano la Casa Bianca: «Quei ragazzi hanno fatto il loro dovere. Gli stessi che li mandano a combattere ora vogliono farne un capro espiatorio». Un impetuoso vento di guerra, che può essere entrato nell’aula, spingendo i giurati in divisa a non infierire su piloti che avevano sì sbagliato ma sostenevano di averlo fatto proprio per prepararsi a quel compito: la condanna poteva essere un pessimo segnale per le migliaia di uomini che si preparavano a rischiare la vita, volando bassi e veloci sulle batterie di Belgrado.
«Indigniamoci ma non stupiamoci per l’assoluzione – commenta Giorgio Bocca sulla prima pagina di Repubblica – Questo è il prezzo dell’impero, della dipendenza economica e militare da una potenza mondiale». Al momento del verdetto, un anno dopo la strage, l’Italia non era più percepita come un problema dal Pentagono. Anzi, le minacce di chiudere le basi attribuite a Prodi erano state introdotte nel dibattimento proprio dalla difesa per dimostrare «il clima di pressione politica» sugli investigatori. Da quattro mesi Prodi era fuori gioco, sostituito a Palazzo Chigi da Massimo D’Alema, che aveva manifestato piena adesione alle iniziative belliche nella Nato. Il suo governo si reggeva sui voti del partito creato esplicitamente da Francesco Cossiga per sostenere l’impegno atlantico nei Balcani, partito a cui apparteneva il ministro della Difesa Carlo Scognamiglio. Di fronte alla polemica per l’assoluzione, il vicepremier Sergio Mattarella cerca di spiegare alle Camere che l’Italia non è succube dell’Alleanza, ma parte attiva che spinge perché l’Europa abbia maggior peso: «Identificare nella Nato un’espressione dell’egemonia americana risulta decisamente anacronistico».
Il post- comunista alla Casa Bianca
Per D’Alema il verdetto è una beffa doppiamente amara, perché piomba mentre è negli Usa per incontrare Clinton, primo post-comunista ricevuto alla Casa Bianca. I colloqui del 5 marzo 1999 dovevano essere incentrati sull’imminente campagna in Kosovo, ma l’assoluzione sovverte l’agenda. Al rientro in Italia il premier riferisce in Parlamento. «Ho apprezzato la sincerità con cui il Presidente ha riconosciuto la responsabilità del proprio Paese. Da parte mia, ho esposto le ragioni di una profonda insoddisfazione. È chiaro, infatti, che l’assoluzione del pilota non può che spostare il livello della responsabilità. Mi limito a ripetere che quella sentenza è stata per molti ed anche per me, un fatto sconcertante. E non perché molti fossero alla ricerca di un capro espiatorio. Lo sconcerto nasceva dal fatto che dopo quel giudizio si è accresciuta la preoccupazione che la verità sui fatti del Cermis possa allontanarsi, offuscarsi ulteriormente». E conclude paventando la revisione dei patti con gli Usa: «Vorrei aggiungere che è del tutto evidente che se le responsabilità della tragedia non venissero accertate – e questo ho detto con assoluta franchezza al presidente Clinton – tanto più si accentuerebbe la necessità di un adattamento e di un aggiornamento degli accordi stessi perché risulterebbe evidente la loro inadeguatezza». Parole poi in qualche modo stemperate dal sottosegretario di Palazzo Chigi Marco Minniti: «La revisione del trattato di Londra “può” – e lo dico tra virgolette – dare una risposta alla nostra sete di giustizia, ma deve essere attentamente valutata al fine di non creare difficoltà ai militari italiani impegnati in operazioni della Nato».
Due settimane dopo il verdetto, il 24 marzo 1999, cominciano i bombardamenti sul Kosovo e sulla Serbia. Era dal 1945 che l’Europa non diventava terreno di una guerra totale, combattuta per 78 giorni esclusivamente dal cielo. L’attenzione si sposta su quegli avvenimenti. Il 28 marzo, quando il capitano Schweitzer ammette le sue colpe per il video fatto sparire e poi bruciato in un camino, nessuno segue l’udienza. La sua spiegazione resta negli atti del processo: «Avrebbero frainteso il contenuto. La televisione italiana lo avrebbe trasmesso accanto alle immagini dei corpi sanguinanti vicino alla funivia…». Pure lui ha patteggiato l’immunità in cambio delle accuse contro Ashby: se la cava con la radiazione dai Marines.
Il secondo processo al pilota Ashby si celebra a maggio 1999, mentre i raid sulla Serbia proseguono senza sosta e si prepara l’invasione da terra. Il capitano si difende con candore: «Tutti giravano video durante le missioni sulle Dolomiti, venivano mostrati nella sala comune, non c’era nulla di male». Cosa confermata dalle deposizioni di altri ufficiali: «Quei filmati con vette e boschi ricordavano la pubblicità delle caramelle Ricola…». Nega però che le riprese abbiano condizionato il volo e che stessero usando la telecamera durante l’impatto con la fune, cosa che nessuno potrà mai provare.
La condanna di Ashby
Il 10 maggio 1999 Ashby viene condannato a sei mesi di prigione ed espulso dai Marines. Va subito in cella ma il 13 ottobre, un mese prima della scadenza, ottiene la scarcerazione anticipata per buona condotta. Per dieci anni ha presentato istanze, chiedendo invano di rivedere la sentenza: l’ultima è stata respinta il 31 agosto 2009. Di lui non si hanno più notizie: sembra che sia rimasto pilota, passando ai comandi di jet privati per magnati americani. I due tecnici seduti dietro, Raney e Seagraves, hanno proseguito la loro carriera. Brillante quella del secondo, che nel 2012 è entrato nella pattuglia acrobatica dei Blue Angeles e fino alla scorsa estate ha comandato la più importante base dei Marines.
Paradossale la sorte del navigatore Schweitzer, reo confesso del video nascosto. Nel 2007 gli è stata riconosciuta la Sindrome Ptsd, lo stress traumatico che tormenta i reduci, diffusa in massa tra i soldati che tornavano dall’Iraq. Da allora insegna ai cadetti dell’Us Navy proprio come superare questa sofferenza psichica. Nelle sue lezioni non gli nasconde la vicenda del nastro sostituito, di cui nel 2014 ha parlato pure in un documentario di National Geographic: «Avevo ripreso le Alpi e il lago di Garda, filmando il comandante Ashby. Poi ho rivolto la camera verso di me e ho sorriso. Se quelle immagini fossero finite sulla Cnn, avrebbero accostato quel sorriso al sangue sulla neve, sarei entrato in uno spettacolo internazionale e non avrei retto a un incubo simile. Per questo ho distrutto il nastro». Elenca poi i suoi «demoni» : «Continuavo a piangere come un bambino, mi chiedevo: perché io sono vivo e loro no». Infine guida gli allievi della Marina lungo un percorso di positività, denso di citazioni letterarie, fino alla rimozione del trauma.
Un pentimento sincero? Sembra più che faccia il sopravvissuto di mestiere. Ha trasformato anche il Cermis in business, tenendo corsi motivazionali a pagamento con la Mastery Technologies. Viene presentato così: «Dopo avere servito dieci anni come ufficiale, ha speso gli ultimi sedici anni in un’odissea, trovando una seconda opportunità di vita come superstite di un incidente aereo. Offre eventi e seminari aziendali per squadre sportive e società, preparando quei leader che vogliono un miglior approccio ai risultati grazie alla sua esperienza di guerriero e di sopravvissuto». Tra i clienti della Mastery Technologies: la squadra di football americano dei Miami Dolphins, Walt Disney, Pfizer farmaceutica, tutti bisognosi di dare una sferzata al morale ai loro giocatori e ai loro manager.
I soldi per le vere vittime sono arrivati nella primavera del 2000, con un decreto firmato da D’Alema: per ogni persona tre miliardi e 800 milioni di lire, pari a circa due milioni di dollari. Paga l’Italia, poi gli Usa ne rimborseranno i tre quarti, come prevedono gli accordi Nato. Molti dei parenti hanno seguito i processi negli Usa. Sono stati ospitati in un residence nella base dei Marines, accompagnati da un interprete militare per tradurre il dibattimento nella loro lingua. Hanno accolto in lacrime l’assoluzione. Klaus Stampfl, il figlio di Maria da Bressanone, lo definisce un verdetto vergognoso: «Non è stato un processo serio, di sicuro non quanto avrebbe potuto esserlo in Italia». Forse sulla scia delle proteste, tre di loro sono stati ammessi a testimoniare nel giudizio sulla cassetta. Emma Renkewitz ha detto alla corte: «Non ho più nessuno, sono rimasta sola». In quella cabina ha perso il marito, la figlia, il futuro genero. «Perché sono morti? Perché hanno nascosto le prove? Soffro perché queste domande mi tormentano e non so come potranno mai rispondermi». Giorgio Vaia, il genero del manovratore dichiara: «Per quanto sia profondo il male, per quanto tu soffra, tenti di accettare quello che è accaduto. Ma lo fai poco alla volta e hai bisogno di sapere cosa è successo veramente». Rita Wunderlich, che inseguì il marito per consegnarli il the sulla porta della cabina, taglia corto: «Non potrò mai avere pace».
Il silenzio dei parenti
Da allora, forse sentendosi traditi da governi ed autorità, tutti hanno scelto il silenzio, evitando di riaprire una ferita così devastante. Respingono i giornalisti, non vogliono prestarsi alle strumentalizzazioni politiche: sono di nazionalità diverse, ma li unisce una dignità comune. «Non ho mai parlato. Continuerò a non farlo. La storia la sanno tutti, il dolore è solo mio», ripete la vedova del macchinista Marcello Vanzo. Il padre di Stefan Bekaert, il giovane studioso venuto dal Belgio, ha devoluto il risarcimento a un fondo per finanziare le ricerche degli studenti di Lovanio e di Kinshasa. I genitori di Rose- Marie Eyskens hanno raggiunto Cavalese da Anversa per ogni commemorazione, portando dietro la foto della figlia ventiquattrenne con un cappellino vezzoso e un calice in mano, il ritratto della gioia che nessuno potrà restituirgli. Forse ci saranno pure domani, quando alle dieci si terrà una piccola cerimonia nella chiesa dell’Addolorata e al cippo che ricorda “le disgrazie del Cermis”, quella del 1976 e quella del 1998, perché nessuno, neppure lì, la vuole chiamare strage.
Venti anni dopo, quelle persone restano senza giustizia e quasi senza memoria: di molte delle vittime non c’è neppure una foto. La loro fine potrebbe essere classificata come un danno collaterale, un errore bellico che si aggiunge alla lunga lista dei crimini delle guerre balcaniche. Senza saperlo, quei venti sono diventati fratelli dei caduti di Sarajevo, di Srebrenica, di Mostar. Ma se per gli eccidi della Bosnia e del Kosovo c’è un Tribunale all’Aja che ancora giudica e punisce, la cabina gialla del Cermis è stata cancellata dalla Storia: rimossa forse perché nell’incapacità di individuare le responsabilità si manifesta una responsabilità collettiva. O forse perché fa troppo paura l’idea che le nostre vite possano venire troncate al ritorno da una gita sulla neve, senza che nessuno sia stato capace di dare una spiegazione convincente.
La verità è rimasta in sospeso, come l’altra cabina gialla, quella dove il 3 febbraio 1998 si trovava il macchinista Marino Costa, bloccata nel vuoto a causa della fune tranciata dal Predatore. Solo, terrorizzato, per oltre un’ora in bilico sul baratro, finché un elicottero lo ha tirato fuori: «Il rumore del cavo che si spezza me lo sogno tutte le notti. Al processo in America non sono andato. Sarebbe servito a niente. Quello che è successo e per colpa di chi, tanto, lo sanno benissimo tutti quanti».