la Repubblica, 2 febbraio 2018
La scelta del terzino: «Il calcio è alla deriva meglio vender moto»
«Ho preferito la fabbrica al calcio. È un posto di lavoro più sicuro». Ce ne vuole per dire così, per smettere di sognare pallone e scarpini, per rottamare un desiderio. E passare da terzino sinistro a operaio in una ditta di stampi in alluminio. Ma la crisi del calcio italiano ha forato tutti i sogni. E non da oggi. Michele Pini, ex capitano del Lumezzane in Lega Pro (ora la squadra è in serie D) dice che non rinnega la sua scelta. Gli piaceva giocare a pallone, ma a 28 anni, le cose non giravano più. Non in campo, ma nella società. «Due anni fa, con uno stipendio di 1.500 euro al mese, ho preferito andarmene, anche se avevo altri quattro mesi di contratto. La verità è che la paga arrivava con tre mesi di ritardo, non c’era puntualità, né certezze, tutto era ridotto al minimo, quando non ci sono più soldi, falliscono anche le speranze. E insomma si vedeva che nessuno investiva più.
Settori giovanili zero. Attenzioni e cure zero. Il calcio mi è sembrato una barca alla deriva.
Pure quello minore, non milionario, in C1 dove una volta si vivacchiava anche se non eri Totti. Ho giocato i play-off di Coppa Italia in Lega Pro, non sono di natura un rinunciatario, ma vedevo avvicinarsi la scadenza del contratto. E un conto è non avere un’alternativa, un altro è sapere che poi andrai a fare altro. Attorno vedevo altre società che fallivano, altre Lumezzane, con pagamenti in ritardo, con ritiri annullati, dove veniva a mancare tutto. Non si trattava più di nord o sud d’Italia, ma di un’organizzazione fallimentare, senza investimenti. Ripeto: puoi anche non essere un campione, ma hai diritto ad un minimo di trattamento. Mi stava nascendo un figlio e io in questo calcio non ci ho più visto né l’illusione di promesse, né un pezzo di futuro, ma solo depressione». Difficile resistere alle magie del pallone. L’hanno fatto in pochi. L’argentino Ezequiel Lavezzi, attaccante del calcio europeo e mondiale, quando aveva 16 anni, nel 2001, dovette abbandonare il suo sogno per diventare elettricista e per tre mesi aiutò il fratello tra fili e cavi. Pini è figlio di un artigiano e di un operaia. Si sarà reso conto di non essere un fuoriclasse. Il suo è stato un sano realismo o la prova che il calcio italiano ha perso non solo i mondiali, ma anche il suo potere di contare? «Non è stata una decisione facile dopo dieci anni di professionismo. Io sognavo di giocare già da piccolo, ho costretto mia mamma ad accompagnarmi al campo e alle partite ogni sabato e domenica.
Ma se a fine mese non ti arriva lo stipendio non puoi più permetterlo, visto che al supermercato la spesa la devi pagare, come anche il dentista e l’elettricista. E allora ho preferito i 900 euro sicuri di una ditta di Manerbio. Orario di lavoro: 7-12 e 13-16,30. Ho detto subito sì perché altrimenti perdevo l’occasione, erano in duemila in fila per quel posto». Come si è trovato il calciatore-operaio?
«Bene, anche se è un lavoro diverso. I compagni non mi conoscevano. Non hai responsabilità, non hai lo stress della partita che t’invade la testa per tutta la settimana. E poi quando finisci il turno, stacchi per davvero, non ti devi concentrare per il prossimi incontri». Però non lavora più in fabbrica. «No. Me ne sono andato, mi mancava l’aria. Buffo a dirlo, ma dopo una vita all’aperto, non resistevo al chiuso, mi sentivo soffocare. E così ora sono in una concessionaria di moto. Mio figlio è nato, si chiama Federico, mia moglie Laura fa l’infermiera, io non mi dichiaro tradito dal pallone, ma forse non sono stato ricambiato. L’Italia che non va in Russia non mi ha sorpreso. Non siamo più competitivi da dieci anni, ma soprattutto non facciamo più sognare».