Corriere della Sera, 2 febbraio 2018
90. Intervista a Ciriaco De Mita
«Una volta un professore della Cattolica mi disse: “Ciriaco, tu hai l’intelligenza di Lucifero”. Giovanni Marcora, fondatore della corrente di Base della Dc, sosteneva invece che se tutti quelli che avevo mortificato col mio pensiero si fossero alleati, di me non sarebbero rimaste “nemmeno le briciole”. Ma sa qual è la verità? Intelligenza o non intelligenza, pensiero o non pensiero, la verità è che io sono un autodidatta. E, come tutti gli autodidatti, so perfettamente le cose che so fare e quelle che non so fare. Le prime le faccio. Le seconde no».
Ci dica una cosa che non avrebbe saputo fare.
«Il presidente della Repubblica. Ci vuole uno stile che io, diciamoci la verità, non avevo. A me piace l’analisi, il pensiero, mi piace chiacchierare. Un presidente della Repubblica non può chiacchierare».
Magari dice così perché non ha mai avuto la possibilità di farlo.
«Non è così. Nel 1985, quando si trattava di scegliere il successore di Sandro Pertini, Alessandro Natta mi fece capire che i comunisti avrebbero potuto sostenere una mia candidatura al Quirinale. Non volevano Giulio Andreotti ma sul sottoscritto erano disposti a ragionare. Il segretario del Pci me lo fece intendere con l’intelligenza che gli era propria. Era un segnale chiaro, io lo feci cadere nel vuoto».
Si è pentito, poi?
«Mai. Nemmeno se ci ripenso oggi».
Tentare di riavvolgere il nastro dell’esistenza di Ciriaco De Mita con Ciriaco De Mita, che oggi compie novant’anni, è come attraversare un fiume con una barca a remi lasciandosi trasportare dalla corrente. Al mare non ci arriverai mai. Ma la corrente ti porterà in angoli di quel percorso che non pensavi esistessero. Per esempio, fino all’età di ottantasette anni, De Mita è stato seguito da un medico che era un pediatra. Ora non più.
A novant’anni ha detto addio al pediatra.
«No. Ho semplicemente scoperto che quel medico, che era l’amico di una vita, non era un amico. E quindi l’ho cambiato».
Che cos’è per lei l’amicizia?
«L’amicizia è quella conoscenza approfondita in cui non c’è convenienza. Avviene quando la traiettoria della vita di due o più persone si allontana dalla loro naturale propensione alla solitudine. Per questo è un valore, più che un legame».
Impossibile, quindi, che lei abbia avuto amici veri all’interno della Dc.
«Gli amici li avevo nell’Azione cattolica e all’università».
E nella Dc?
«Le racconto una cosa. Per una vita sono stato in conflitto con Carlo Donat Cattin. Si figuri se, in un rapporto del genere, erano previsti scambi di regali o cose del genere. Invece, poco prima che morisse, a gennaio del ’91 mi arrivarono tre libri sulla storia di Roma con un biglietto firmato da lui. Non diceva nulla di che, tipo “ti chiedo scusa se ti sono arrivati in ritardo rispetto alle feste di Natale…”. Eppure in quelle righe vidi un’intensità umana che andava molto oltre il loro contenuto. Avevo ragione e ne ebbi la riprova nel consiglio nazionale che precedeva di poco il varo di un governo Andreotti. Donat Cattin si alzò e disse: “L’ultimo presidente del Consiglio democristiano è stato De Mita”».
Con Cossiga, invece, aveva smesso di parlarci nel 1990.
«L’avevo fatto io presidente della Repubblica».
Di nuovo l’elezione del 1985, quella che poteva essere sua.
«Disegnai un metodo che portava a lui. Toccava alla Dc? Bene, il segretario della Dc, che ero io, decise di incontrare tutti i partiti che si riconoscevano nella Costituzione. Quindi tutti, tranne l’Msi. Andreotti, che era un candidato naturale, mi disse: “Se votano Cossiga, andiamo avanti su di lui”. Convinsi Spadolini garantendo che Cossiga avrebbe tenuto Maccanico alla segreteria generale del Quirinale. E i liberali promettendo d’accordo con Cossiga che, dal Colle, avrebbe fatto Malagodi senatore a vita. Da ultimo, l’incontro con Natta a casa di Biagio Agnes. Era fatta».
Ma nessuna delle promesse venne mantenuta da Cossiga. Né Maccanico al Colle né Malagodi senatore a vita.
«Fosse solo questo. L’avevo mandato io al Quirinale. Eppure, da lì, mi voltò le spalle. Mai mi aiutò nel confronto con Craxi. Vent’anni dopo, quando stette male, alla fine, chiesi di parlargli. Telefonavo e non me lo passavano. Chiamai il figlio: “Di’ a tuo padre che deve rimanere vivo perché ho ancora bisogno di capire delle cose da lui”. Lui morì, io rimasi senza sapere».
I suoi detrattori dicono di lei che ha sempre avuto a cuore una cosa: se stesso.
«È falso. La politica di oggi si fa coi programmi. Ma i programmi non contengono la soluzione per la crescita di un Paese. La nascita o la rinascita di un Paese sta nelle parole. Perché le parole contengono le regole. E non esiste programma se prima non ci sono le regole».
Lei le ha sempre rispettate, le regole?
«Ho sempre pensato alle regole e mai a chi dovesse applicarle. Ho sempre pensato alle soluzioni e mai a chi dovesse metterle in pratica. Io ho il pensiero. Una volta che passa quel pensiero, quasi mi disinteresso a chi tocca fare il segretario, il presidente del Consiglio o della Repubblica. Mi è sempre interessato il come, poco il chi».
Se come Scalfari si fosse trovato a scegliere tra Di Maio e Berlusconi, come avrebbe risposto?
«Avrei risposto “nessuno dei due”. Le domande capestro sono proprie dei tiranni. Il saggio se ne chiama fuori».
Lei si sente saggio?
«Saggio o no, io ho sempre fatto delle battaglie di principio. Cosa che, per esempio, non ho mai visto fare ad Andreotti, che ragionava sempre sulla base della sua opportunità. Oggi, a novant’anni, guardo al futuro partendo dal passato. Ed è una cosa che non vedo fare a quelli giovani, che si occupano esclusivamente del presente».
Quanto vorrebbe vivere ancora?
«Le do una risposta. Ma non le permetterò di scriverla».