il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2018
Uno non vale l’altro
L’altroieri, dopo l’incontro a Londra fra Luigi Di Maio e i rappresentanti di alcuni fondi di investimento internazionali, è successo il più classico degli equivoci. E, una volta tanto, non è colpa del giornalista Gavin Jones della Reuters che l’ha innescato con un’esclusiva intitolata “Londra, Di Maio: M5S disponibile a governo larghe intese con FI e Pd”. Jones è un giornalista della stampa estera che conosce e capisce la politica italiana più di molti italiani e, diversamente da loro, non scrive nulla senza fonti qualificate e attendibili. Evidentemente ha parlato con uno dei partecipanti agli incontri con Di Maio, il quale gli ha riferito ciò che aveva capito del discorso che il candidato premier dei 5Stelle va ripetendo da mesi, sempre con le stesse parole: “Se la sera del 4 marzo nessun partito o coalizione avrà la maggioranza per governare da solo, e se i 5Stelle arriveranno primi, chiederò al presidente Mattarella l’incarico di formare il nuovo governo, poi andrò in Parlamento e mi appellerò a tutte le forze politiche perché convergano sui contenuti di un programma per punti, senza scambi di poltrone sottobanco, tutto alla luce del sole”. Ovvio che, se tutte le forze politiche dicessero di sì a Di Maio, quello che nascerebbe non sarebbe un governo di larghe, ma di larghissime, quasi totalitarie intese. Cioè avrebbe quasi il 100% dei consensi in Parlamento, più ancora del governo Monti, che vedeva all’opposizione solo la Lega e l’Idv di Di Pietro. Siccome la proposta di Di Maio è inedita e mai sperimentata in alcuna democrazia occidentale, chi l’ha ascoltata a Londra l’ha tradotta in una formula già vista in Italia e non solo (per esempio in Germania): la grande coalizione fra i maggiori partiti.
Di Maio l’ha smentita con orrore, e dal suo punto di vista va capito. Ma anche lui deve capire che la sua idea è pressoché incomprensibile perché irrealizzabile. Perché o è molto furba, o è molto stupida. Molto furba perché consente ai 5Stelle di non scoprire le carte prima delle elezioni, cosa che peraltro non fanno soltanto loro, ma anche e ancor di più gli altri partiti, protagonisti di “coalizioni” finte e truffaldine destinate a durare fino al 4 marzo sera, quando Renzi e Berlusconi saluteranno i rispettivi alleati (dopo averli spremuti come limoni per moltiplicare i propri pochi voti) e tenteranno di convolare – seggi permettendo o comprando – a ingiuste nozze: una truffa collettiva che è stata imposta dal Rosatellum e che dunque non può essere accollata ai pochi che non l’hanno votato (M5S, LeU e FdI). Molto stupida perché tale sarebbe Di Maio se davvero credesse a ciò che dice.
Ecioè che il suo eventuale governo potrebbe essere sostenuto indifferentemente da qualsiasi partito, dalla sinistra (Liberi e Uguali) al centro (Pd e i suoi derivati) alla destra (FI, Lega e FdI). Tantopiù se fosse vero quello che Di Maio dichiara, e cioè che il premier lo farebbe lui, il programma lo scriverebbe lui e i ministri li deciderebbe lui, senza trattare con nessuno: prendere o lasciare, a scatola chiusa. È vero che il rischio di perdere la poltrona appena (ri)conquistata indurrà molti peones a sostenere qualsiasi governo pur di non rimetterla in gioco, ma è anche vero che i peones potrebbero convergere su un governo Di Maio solo se fosse l’unica alternativa allo scioglimento delle Camere. E sappiamo bene che difficilmente sarebbe così: dietro l’angolo, fallito il suo tentativo, potrebbe spalancarsi la strada per una bella ammucchiata con dentro tutti (tranne M5S e forse LeU), che sul programma non andrebbe tanto per il sottile, ma sulle poltrone sì. Un bel replay del governo Letta-Napolitano-Berlusconi del 2013 e poi del Patto del Nazareno del 2014. Quindi Di Maio dovrà scegliere: non oggi, quando ancora non conosce i numeri dei possibili partner, ma la sera del 4 marzo, per non gettare alle ortiche il biglietto vinto a una lotteria che potrebbe non rivincere mai più. Scegliere a quali forze politiche rivolgersi per un patto di governo, sul programmi e sui ministeri, e quali escludere.
Se Grasso, Bersani & C. ottenessero un buon risultato, sarebbero il partner ideale. Sia perché un patto con un ex magistrato relativamente nuovo alla politica costerebbe, all’immagine di purezza dei 5Stelle, molto meno di un accordo con uno o più vecchi partiti. Sia perché a quel punto la proposta potrebbe farsi molto interessante per quei settori del Pd (le minoranze di Emiliano, Cuperlo, Orlando e Boccia) che non vedono l’ora di scaricare Renzi e hanno, sul M5S, posizioni molto meno ostili di quelle renziane. Oltretutto le battaglie sociali dei 5Stelle sono molto più vicine a questi settori del centrosinistra, che al renzusconismo e al leghismo. È ovvio che l’alleanza con la Lega, data quasi per scontata dai giornaloni e molto appetita da una parte dei 5Stelle, sarebbe – non solo numericamente – l’operazione più semplice. Salvini è ansioso di governare con Di Maio per sconfiggere l’ennesimo, prevedibilissimo tradimento inciucista di B. Ma accettarne l’appoggio, per i 5Stelle, sarebbe un errore imperdonabile: sia perché con Salvini non c’è alcuna possibilità di dialogo civile; sia perché le convergenze programmatiche, checché se ne dica, sono scarissime; sia perché il grosso degli eletti pentastellati arriverà dal Centro-Sud e molti di essi se ne andrebbero ipso facto in caso di accordi con chi li ha sempre insultati e disprezzati, facendo mancare molti più seggi a Di Maio di quelli che gli porterebbe Salvini. Per questo lo schema Di Maio, oltre a creare equivoci, non può funzionare. Chi vince le elezioni deve scegliersi gli alleati, con una proposta chiara e innovativa e un atteggiamento umile e duttile. Altrimenti saranno gli altri, cioè chi le elezioni le ha perse, a sceglierlo. Per scioglierlo.