La Stampa, 1 febbraio 2018
Così Sanremo racconta come cambia il Paese
Dell’Italia del 1951 non è rimasto niente. Non c’è un solo partito politico di quelli che allora si sfidarono in campagne elettorali memorabili. Il Festival di Sanremo, no: resiste imperterrito. Da allora ha scandito il racconto della nostra storia, intercettandone le cesure, rispecchiandone gli aspetti più effimeri e quelli più profondi. Ed è questo il segreto della sua longevità: Sanremo è stata una creatura multiforme, capace di adeguarsi ai cambiamenti, in grado di superare crisi e appannamenti e di rigenerarsi ogni volta.
All’inizio le sue canzoni furono davvero la colonna sonora che accompagnò la ricostruzione del Paese dopo la guerra. E ce ne restituiscono oggi tutti gli elementi di continuità con il fascismo che né il crollo del regime, né la Resistenza erano riusciti a scalfire. Nel 1952, ai primi due posti si classificarono Vola colomba e Papaveri e papere. La prima legò il suo successo all’invocazione struggente di «Trieste italiana» e dando corpo a tutte le nostalgie possibili sulla guerra perduta e l’italianità delle terre redente. La seconda, con le sue allusioni ai notabili democristiani, riproponeva molti degli stereotipi di una satira politica bonaria e ammiccante che – durante la dittatura – si era alimentata soprattutto di innocue barzellette.
In tutti quegli anni da Sanremo fu rovesciata sul Paese una valanga di vecchi scarponi, malinconiche chitarre, trepide mogliettine, pericolose donne fatali. Poi… poi nel 1958 arrivò Modugno. Il «volo» di Nel blu dipinto di blu diventò un grido liberatorio e eccitante nel quale rimbalzavano i cambiamenti che, grazie al boom economico, stavano scuotendo il Paese. Era un’Italia ancora democristiana, così come democristiana era la Rai. Il nuovo andava centellinato, frammisto agli elementi più rassicuranti del vecchio. Furono gli anni d’oro di Sanremo, finiti nel 1967 con il suicidio di Tenco, che certificò l’impossiblità di tenere insieme la tradizione con l’innovazione, i cantanti e gli autori della vecchia generazione con le impazienze dei cantautori in cerca di nuovi modelli espressivi. Nel 1970 vinse Celentano con Chi non lavora non fa l’amore, pallida eco di un «autunno caldo» travolgente. Poi iniziò il declino.
La crisi durò quanto durarono gli Anni 70 e finì quando finì quella stagione di intensa radicalizzazione politica. Nel decennio successivo Sanremo rinacque, cambiando pelle e diventando quella che è ancora oggi. Nel frattempo era cambiata l’Italia e soprattutto era cambiata la tv. Agli inizi degli Anni 80, una trasmissione condotta da Pippo Baudo prevedeva come premio per i concorrenti la possibilità di entrare in un supermercato e nel tempo a disposizione arraffare tutto quanto era possibile, per il solo gusto di prendere e portare a casa. Difficilmente altri documenti potrebbero racchiudere meglio lo spirito di quel tempo, quando la traiettoria «dalla solidarietà all’egoismo» si era definitivamente compiuta e sulle macerie delle ideologie egualitarie degli Anni 70 era nata una nuova dimensione antropologica degli italiani.
Sanremo si allineò a questa mutazione: le canzoni lasciarono il posto a un racconto che cercava di mettere in scena spezzoni di una realtà italiana sempre più dipendente dalla visibilità televisiva e sempre meno dal protagonismo politico. Nessuno oggi ricorda più le canzoni vincitrici; in compenso restano memorabili le incursioni di Cavallo Pazzo, delle mogli dei marò prigionieri in India, il tentato suicidio in diretta di un disoccupato. Nel 1984, gli operai dell’Italsider si presentarono sul palco dell’Ariston «ospitati» magnanimamente da Pippo Baudo: malinconicamente costretti a raccattare le briciole di un protagonismo mediatico che, in realtà, sanciva la sconfitta storica delle loro lotte.